... una grande piscina, sullo sfondo del quadro una casa dall’architettura contemporanea e nell’acqua un grande spruzzo, come fosse nel momento in cui qualcuno tuffandosi, scompare nell’acqua. Non si vede nessuno, solo quello spostamento d’acqua, uno scroscio bianco sul calmo dell’azzurro della piscina. E’ un quadro fermo, rarefatto, tutto è definito al dettaglio, tranne quell’intervento che lo scompiglia, anche in senso gestuale.
Ho visto molte mostre di David Hockney, in Inghilterra soprattutto quando frequentavo spesso Londra e possiedo molti suoi cataloghi: mi impressiona la sua costante curiosità, che pur sempre nell’ambito visuale, anche multimediale, lo porta a sperimentare moltissimo, all’inizio con il fax, le Polaroid e le fotocopie e in ultimo, con l’uso pittorico dell’Ipad. Certo il suo periodo Pop, con le opere legate a un mondo da favola, le ricche ville dai colori accesi e un po’ piatti è sicuramente quello che ha colpito di più l’immaginario. E’ la California degli anni ‘70, quando Hockney cercava di catturare ogni riflesso delle sfavillanti piscine, la luce, soprattutto la luce, quel sole abbacinante che si specchia nell’acqua e la vita quotidiana, senza alcun dramma. Le sue opere sono come sospese nel tempo, in un’atmosfera senza dolore, per così dire, eterna.
Tutta l’idea di allora, di una riduzione dello spazio ad immagine perfettamente bidimensionale, quasi grafica, che esclude l’impiego della prospettiva classica, rimane comunque al centro della sua ricerca artistica e costituisce ancora oggi, a 87 anni compiuti da pochi giorni, il fulcro del suo lavoro. Come tutti gli artisti molto longevi si è preso tutto il tempo e lo spazio per viaggiare, con il corpo e con lo spirito, senza mai cedere.