Pensieri e pensatori in libertà


La libertà e la politica liberale

Dopo l’articolo della settimana scorsa sulla libertà, qualche lettore mi scrive per chiedere quali siano le conseguenze di un’idea di libertà che non sia neutrale, nella quale cioè non valga il detto per cui tutto è permesso purché non leda la libertà altrui. Infatti, una volta dimostrato che lediamo, influenziamo, condizioniamo sempre la libertà altrui, allora come la mettiamo con il mondo liberale occidentale? Dovremmo forse sposare un’idea di Stato etico come i totalitarismi del secolo passato e quelli presenti nei quali lo Stato ci dice che cosa è bene e che cosa è male?

Ovviamente no, non sarebbe zafferaniano. Esistono però delle vie di mezzo. Il bene si può anche proporre invece che imporre. Tuttavia, la conseguenza del fatto che non esista una libertà neutrale è che la politica non può del tutto esimersi dal fare una proposta culturale, cioè dal provare a dire che cosa sia bene o male o, almeno, a indicare che cosa vada in una direzione migliore o peggiore. Del resto, senza questa dimensione culturale, la politica diventa pura lotta per il potere.

Qualche esempio passato e attuale può servire per spiegare come questa dimensione culturale non sia evitabile. I partiti di sinistra, in Italia e in Europa, non hanno mai avuto troppi dubbi al riguardo: derivando da una concezione di libertà positiva, marxiana ed hegeliana, hanno sempre fatto battaglie etiche nella convinzione che la lotta per il potere e quella culturale siano un tutt’uno. Certo, i valori sono molto cambiati nel corso dei decenni – passando da un rigido moralismo a un rigido a-moralismo – ma non ci sono mai stati dubbi.

Più curiosa la parabola dei partiti centristi di ispirazione cristiana, in Italia e in Europa. Cominciando le attività dopo la Seconda guerra mondiale, e sulla scorta di un forte influsso della dottrina sociale della Chiesa Cattolica o di equivalenti di altre Chiese, avevano cominciato con progetti educativi. La RAI italiana degli anni ’60 ne è un esempio preclaro. Solo che, molto presto, l’arrivo della libertà all’americana e il poco studio delle proprie radici alterano questo quadro. Nella ferrea volontà di far qualcosa di diverso dalla sinistra, questi partiti sposano il liberalismo economico (che poi sposerà anche la sinistra) ma trasformano il piano etico-sociale-educativo in un neutralismo valoriale. Fatti salvi i valori economici, ciascuno faccia ciò che crede. Ed eccoci ai nostri giorni. Questa è anche spesso la posizione del PPE, uscito vincitore dalle elezioni europee di giugno. Per non avere le pretese educative dei socialisti, basta concentrarsi sui temi utili a tutti – competizione economica, difesa comune, sicurezza – lasciando l’aspetto culturale alla libertà dei singoli, purché non ledano quella altrui.

Proprio perché questa neutralità non esiste, questa mancanza di attenzione culturale può diventare un serio problema politico. Lasciare incolto il campo culturale significa solo che esso sarà occupato da altri. Per questo, se è vero che il PPE ha vinto le elezioni politiche, è chiaro che il suo spazio culturale rimane incerto e occupato sia dalla sinistra sia dalla destra. E, alla lunga, tanto più in un’istituzione così internazionale come l’Europa, già mancante di miti fondativi solidi, la mancanza di cultura rischia di essere fatale. I partiti di centro dovrebbero cercare invece di farsi paladini della cultura e dello studio della storia, degli studi umanistici oltre che di quelli scientifici, cercando di preservare il nesso con la tradizione che ha portato all’invidiabile livello di capacità di espressione, di pensiero e di azione per il bene comune, cioè di libertà, della nostra Europa. Rinunciare a questa vocazione è invece un errore che, come per la DC italiana, porta a leggere le vicende da un punto di vista soprattutto strategico, di lotte di potere che risultano incomprensibili alla maggioranza dei cittadini, a cui non rimarrà altro schema che quello ottocentesco e violento di poveri contro ricchi, massa contro élite.


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