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La filosofia del basket sta cambiando?

Se siete stufi del calcio dove si passa la palla indietro per la costruzione dal basso e non si segna mai, passate al basket: tornare nella propria metà campo è vietato e si segna ogni 24 secondi. Così dicono gli stereotipi. Veri, peraltro, ma solo parzialmente. Anche una partita di basket può essere noiosa e segnare troppo può far perdere il gusto. 

Al contrario, ci sono tante caratteristiche che accomunano i due sport. Un filosofo americano, Vincent Colapietro, dice che basket e calcio piacciono perché sono due grandi coreografie di ballo, una basata sulle mani e l’altra sui piedi. Se guardate uno slow motion della fila di calciatori che salta durante un calcio d’angolo o un’azione con extra-pass del basket, concorderete con il filosofo. Se poi guardate gli ultimi 3 minuti della gara 1 della semifinale New York-Indiana dell’NBA americana, capirete che a basket come a calcio, oltre alla bravura, la fortuna o il caso o il destino giocano un ruolo fondamentale, ed è per questo che ci divertiamo a guardarli.

Al proposito, quest’anno la finale dell’NBA è inconsueta. Invece di Boston, Los Angeles, San Antonio e Miami, troverete Oklahoma City e Indianapolis, due città dell’America sconosciuta, quella interna dove il basket è religione quanto il lavoro, la chiesa, la colazione con uova e salsiccia alle 6 del mattino. I Thunder (i tuoni di Oklahoma) e i Pacers (i battistrada di Indiana) sono due franchigie medio-piccole che hanno raggiunto la finale per seconda volta della loro storia e non hanno mai vinto. I Tuoni sono favoriti perché è dall’inizio dell’anno che giocano bene, ma i Battistrada hanno sgominato lungo la strada dei playoff una serie impressionante di avversari più forti, partendo sempre da sfavoriti. I campioni stellari NBA, Le Bron e Curry, Doncic e Jokic, Tatum e Brunson sono tutti in vacanza da molto tempo, eliminati lungo la via. Giocheranno città sconosciute e squadre non celebri. Ma, forse, proprio questo è il bello e c’è qualcosa da imparare.

Infatti, al di là di chi vincerà la sfida, le due squadre che giungono in fondo rappresentano un cambiamento della filosofia del gioco. Si supponeva negli ultimi anni che per vincere occorresse avere tre superstar in squadra, e bastasse lasciarli in campo il più possibile durante i playoff dando loro la palla in modo che battessero ripetutamente gli avversari. Le due squadre, molto giovani di età, hanno poche superstar (Gilgeous-Alexander per i Thunder, forse Haliburton per i Pacers) ma giocano con tutta la squadra, panchina inclusa. Invece di cambiare 6-7 giocatori, ne cambiano 10-11. Invece di passare la palla a lungo fino a darla al giocatore più bravo, corrono disperatamente in avanti, chiunque ci sia a ricevere là in fondo, vicino al canestro. Difendono entrambe con forza, alle volte con una fisicità esagerata. Fanno un po’ tutto tutti: tirano, difendono, e soprattutto corrono, corrono, corrono.

È un nuovo basket: accelerato e ancor più di squadra. Sicuramente non ci si annoia. Non vince il più bravo, ma chi gioca bene insieme agli altri e non si risparmia mai. Ma non è forse questa la logica di ogni sport di squadra? Forse in questo basket delle piccole città sconosciute è ancora più evidente. Non è un bell’insegnamento per la nostra epoca di individualismo narcisista?

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In questo numero hanno scritto:

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