Agostino è stato tutto. È stato africano e romano, pagano e cristiano, padre e prete, filosofo e teologo, hippy e monaco, professore e scrittore. Ha determinato l’intera dottrina della Chiesa cattolica con gli studi su peccato originale, libertà, Grazia, rapporto con il potere. La sua dottrina della conoscenza, per la quale la verità risiede all’interno dell’uomo, ha deciso di buona parte del pensiero occidentale in tutte le discipline. Impossibile non vedere nella sua opera le anticipazioni della semiotica, la disciplina che studia i segni, e della psicanalisi – entrambe studiate scientificamente quasi un millennio e mezzo dopo di lui. Ha inventato il concetto di autobiografia con le sue Confessioni, uno dei libri più letti e influenti della storia.
Per rinfrescarmi le idee al proposito, ho letto qualche biografia contemporanea. Una è particolarmente critica, se non ostile: Augustine, di James O’ Donnell del 2005. L’autore legge Agostino partendo dall’ipotesi che dio (minuscolo, sempre, in O’Donnell) non ci sia e che quindi tutto si spieghi in termini puramente umani. Agostino diventa così un arrivista in cerca di gloria e potere, che inventa le Confessioni per una giustificazione a posteriori di un percorso di potere costruito dapprima nei manichei, potente setta religiosa, e poi nel Cristianesimo a cui si convertirebbe per seguire l’ascesa politica di una religione ormai di moda. Ma anche qui, diventato vescovo a Ippona, e trovandosi in minoranza rispetto alla versione donatista e poi a quella pelagiana, si arrabatta nel rapporto con Roma per far scomunicare la maggioranza e far vincere la sua minoranza. Agostino così crea il cattolicesimo ortodosso: il suo. Per leggere in questo modo Agostino, O’Donnell deve ovviamente gettare qualche sospetto sul suo rinunciare a tutti i beni – anche se in realtà riesce solo a spostare in avanti di qualche anno il momento della rinuncia – e sulla sua vita casta dopo la conversione, nonché sulla sua vita di obbedienza monastica.
Il problema è che, leggendo Agostino senza il suo rapporto con Dio, risulta ancora più difficile capire la sua grandezza e la sua influenza. Per tutto il libro O’Donnell deve rispondere alla domanda che gli preme: ma come ha fatto Agostino, da un paese sperduto dell’Africa, a cambiare il mondo? Per rispondere, l’autore deve mettere in campo così tante volte la fortuna, il caso, la creatività, l’invenzione come motori della storia che si fa prima a dire Dio. Per paradosso, la figura di Agostino, se togliete Dio, risulta essere ancora più gigantesca e incomprensibile: un genio del male dalla fortuna illimitata.
Così, per assurdo, la biografia di O’Donnell manifesta la stessa verità delle Confessioni, che sarebbero per l’autore l’emblema di tutte le invenzioni agostiniane: Agostino era un povero uomo, superbo e lussurioso come spesso accade agli intellettuali (Dante dice lo stesso di sé), arrivista come tutti, immischiato in vicende umanissime, come tutti. Eppure, a un certo punto, tutto ciò diventa occasione e motore per la più straordinaria storia di intelletto e azione del mondo occidentale. Agostino usa tutto quello che sa ed è per affermare la verità di ciò che ha incontrato e conosciuto: usa i suoi studi, la sua abilità retorica, i suoi rapporti, la sua caparbietà per affermare ciò che ritiene gli abbia salvato la vita perché era un povero uomo con molti difetti, alcuni dei quali i cristiani chiamano peccati. In un libro chiamato È mezzanotte dottor Schweitzer, Gilbert Cesbron fa dire a un altro prete e santo legato all’Africa, Charles de Foucault, rispetto a critiche analoghe a quelle di O’Donnell: “Dio quando ci impegna per la sua lotta, ci prende come siamo tutti interi: il buono e il cattivo. Se metti un ceppo al fuoco, tutto brucia: anche i vermi che lo divorano”. Ed è per questo che è Sant’Agostino.