Le emozioni sono sempre “uniche” e quindi, esclusive, cioè individuali, non ripetibili, non partecipabili del tutto. Non è l’ultima delle spiegazioni del perché siamo così frammentati, in piccole tribù, spesso così piccole da coincidere con sé stessi e con i propri specchi, alle volte solo virtuali.
Ma torniamo a Nicea. Che cosa c’entra il Concilio voluto dall’imperatore Costantino con la frammentazione del nostro mondo? Don Maspero spiega che anche Costantino aveva il problema della frammentazione sociale. Così, dopo aver legalizzato il culto cristiano (313 d.C.), era convinto che esso avrebbe aiutato l’impero già segnato da profonde crisi. Si rende conto presto che invece i cristiani sono tra loro divisi al punto tale da minacciare la stessa unità dell’Impero. La convocazione del Concilio è la sua ultima carta. Prima infatti aveva cercato di fare andare tutti d’accordo sulle buone pratiche, l’ortoprassi, secondo la felice espressione del curatore della mostra. Cerchiamo di comportarci tutti allo stesso modo e poi l’unità verrà. Non alziamo troppo i toni, non facciamo questioni di principio, non litighiamo, mettiamo un vescovo ariano (questa era la setta maggioritaria) e uno ortodosso tradizionale e poi l’unità si farà nel tempo, stando insieme. Non aveva funzionato. Le cose erano solo peggiorate, tanto è falso che il tempo da solo possa risolvere le grandi questioni. Alla fine, Costantino aveva capito che occorreva che i cristiani si chiarissero le idee, piuttosto litigando, e arrivando a una definizione. In quel caso, si trattava niente meno che della definizione della natura di Gesù, le cui implicazioni socio-politiche erano molto rilevanti. È l’inizio dell’epopea di Atanasio le cui definizioni durano tuttora, ripetute nel Credo tutte le domeniche dai cattolici.
Ma ciò che ci interessa qui è l’idea che per risolvere la frammentazione alla fine servano le definizioni. Ohibò, addirittura un tema logico. La definizione è ciò che Aristotele aveva trattato per indicare quelle proposizioni che legano l’essere ai tipi di proposizioni che usiamo (affermative/negative) e ai loro valori (vero/falso). In una parola, la definizione ci restituisce l’essenza di una cosa. “Che cos’è un uomo? Un animale razionale”.
Perché le definizioni dovrebbero aiutare a superare la frammentarietà? Non abbiamo detto per anni che occorrono le storie, le narrazioni o persino le emozioni e i sentimenti? Non è vero forse che siamo più uniti quando non definiamo troppo e che quando ci mettiamo a definire qualunque cosa, persino il reciproco volersi bene, finiamo con il litigare? Le storie e la vaghezza dei sentimenti in effetti servono molto, e svolgono funzioni specifiche, anche in logica, quando si condivide la natura di una cosa. Quando è la natura stessa della cosa a essere in crisi, invece, è la definizione a tenere insieme i pezzi: le parole, i valori, le cose. Quando si è in crisi davvero, dal matrimonio all’azienda, dai piani personali alle politiche pubbliche, le storie non bastano; al contrario, rischiano solo di creare invidia e rancore. Così come non basta il vago proseguire, il mero andare avanti. Occorre chiarire proprio le definizioni, che spesso diventano poi principi, statuti, contratti.
Così, è forse venuta l’epoca, soprattutto per l’Occidente, di recuperare la natura delle cose, di ri-capire sé stesso e quindi di tornare a trovare buone definizioni e insegnarle. Contrariamente a quanto aveva affermato Paolo VI cinquant’anni fa, in un’epoca molto meno frammentata nella Chiesa e nel mondo, ora occorrono anche dei buoni maestri, che cerchino e trovino buone definizioni.