Pensieri e pensatori in libertà


L’etica paradossale di Šalamov

Se non avete letto Šalamov, fatelo. I racconti di Kolyma sono un viaggio nell’immensità assurda e glaciale dei lager staliniani. I racconti sono duri, spietati nelle descrizioni dell’abiezione da lager, impietosi nel giudizio sull’essere umano che viene fuori dai totalitarismi del XX secolo, eppure anche misteriosamente profondi e, in qualche modo, impregnati di una forza positiva che non è l’esito immediato della lettera dei testi.

Per questo se avete letto Šalamov, dovete leggere Gulag e resistenza morale, la lettura filosofica del grande autore scritta da Maria Teresa Russo per Armando editore. Russo, infatti, entra nel mistero contraddittorio e imponente di questo autore che si oppone a Dostoevskij e alle sue rappresentazioni idilliache e fuorvianti del mondo criminale, a Solženicyn e alla sua redenzione da campo e – indirettamente – a Grossman e alla sua epica umana. Per Šalamov non c’è nessun esito buono: nei campi di concentramento, lavoro e morte si trova solo la rabbia e l’infinita capacità di piegarsi a tutto propria degli esseri umani. Come i pini nani della Siberia che si piegano per sopravvivere sotto la neve e rialzarsi a primavera, così gli esseri umani sopravvivono nel campo piegandosi a qualsiasi cosa in nome dell’istinto di sopravvivenza e della rabbia.

Eppure Šalamov non è tutto qui. Il tremendo mondo dei campi, da cui esce fortuitamente, fa emergere in lui anche un’indefinibile tenacia etica, di cui non si può parlare, che non si può raccontare nella forma di un romanzo, che non si può condividere perché troppo “impregnata di anima e di sangue”. Nella sua personale tenacia etica, che lo porta a sopravvivere a sedici anni di lager senza denunciare nessuno e senza mai accettare di fare il caposquadra, cioè il detenuto che collabora in qualche modo al sistema, e nella sua ricerca di una forma estetica espressiva adeguata alla descrizione dell’assurdo, si consuma la tensione drammatica che porta Šalamov tra i grandi autori, paradossalmente vicino agli abissi dostoevskijani. Come in filosofia accade a Wittgenstein, che voleva trovare la purezza etica assoluta in un estremo tentativo di chiarezza del linguaggio, per ammettere infine che “di tutto ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, Šalamov confessa: “Ma come possiamo parlare di qualcosa di cui non possiamo parlare? Non riesco a trovare le parole. Forse sarebbe stato più facile morire”.

Eppure, Šalamov non muore e scrive. Trova così la forma per dire l’indicibile: una forma nuova, sintetica, tagliente, veridica per raccontare una realtà resa totalmente irrazionale e assurda. È l’eternità dell’arte – sostiene la celebre slavista Maurizia Calusio – che costituisce la profonda credenza di Šalamov, così come la scoperta dell’eternità dell’anima umana e della vita costituiscono le convinzioni rispettivamente di Solženicyn e Grossman.

Nel libro di Maria Teresa Russo si capisce bene che questa credenza estetica ha un contenuto etico paradossale. E così che l’autore spietato e non religioso si trova a scrivere, alla morte di Pasternak: “Devono bene esistere uomini ai quali crediamo in ogni istante. Devono ben esistere i Buddha viventi, non soltanto personaggi dei libri”. Deve ben esistere qualcuno che incarni il bene. Così come, di fronte al quadro della Madonna Sistina, esposto a Mosca nel 1955, legge negli occhi della Madonna “il superamento dell’angoscia, una decisione presa nonostante le sofferenze del figlio, le sofferenze ordinarie della vita umana”. L’autore della verità spietata, del realismo dell’assurdo, trova forse nella Madonna di Raffaello una condivisione inaspettata delle sue decisioni etiche estreme: “E di fronte alla mia Madonna/piango senza vergogna,/ seppellisco la testa fra le mani/ come non ho mai fatto prima./ Chiedo perdono a me stesso/ Per aver capito solo adesso/ che queste lacrime sono purificanti./ Si chiamano anche catarsi”.

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