MacIntyre non ha mai smesso, anche in seguito, fino al suo ultimo L’etica nei conflitti della modernità del 2016, di vedere la nostra epoca come frammentaria e frammentata. Oggi bisognerebbe aggiungere anche polarizzata.
MacIntyre era convinto che tutto ciò fosse dovuto alla scelta illuminista e liberale di mettere tutti sullo stesso piano, come se ci fosse un mondo fatto di individui identici e di principi astratti che valgono per tutti ovunque. La sua risposta è che invece siamo esseri che vivono in comunità o società concrete e quindi non possiamo essere considerati in modo astratto, come se ci fosse “l’essere umano” in quanto tale. Alla fine, diceva con ironia, quando si professa questo “uomo”, in realtà si pensa sempre “l’uomo inglese (o francese) del XIX secolo”. Sotto l’idea che siamo tutti uguali si nasconde sempre la violenza di quelli “più uguali degli altri”.
E, allora, occorre dire che non c’è nulla di universale e che ognuno faccia ciò che vuole, tanto non c’è alcuna verità, come diceva Nietzsche e, un secolo dopo, i nichilisti relativisti della fine del secolo scorso? MacIntyre, cresciuto nella Scozia dei racconti e nel marxismo, si era convertito a un certo punto all’aristotelismo e poi al cattolicesimo. Era convinto infatti che le varie morali conflittuali e frammentate si possano confrontare razionalmente e che, in questo confronto, emerga la superiorità del neo-aristotelismo tomista, cioè l’idea di una morale incarnata in una comunità ma aperta alla ricerca di orizzonti universali e unificanti di bene, vero e giusto.
Negli anni MacIntyre si è battuto per dare una versione dell’aristotelismo e del tomismo che non fosse bacchettona, che togliesse a queste filosofie l’inevitabile usura e i pregiudizi dei loro secoli, che fosse uno strumento di critica del mondo capitalistico attuale senza la violenza marxista, che potesse essere praticabile e comunicabile negli Stati Uniti, dove viveva da più di 50 anni. Ci è riuscito? Io penso di no. Non ci è riuscito perché non ha innovato il ragionamento tomista, magari con la matematica, la semiotica e la logica contemporanee. E poi perché alla fine, pur parlando bene di molte comunità, non ne ha assunta nessuna come luogo di reale appartenenza, finendo per confrontare le varie tradizioni di pensiero in modo molto accademico, nonostante il suo intento fosse l’opposto. Nel finale di Dopo la virtù si augurava che nascesse un altro san Benedetto, “molto diverso dal primo”, ma la sua ricerca invece che essere storica si è alla fine arenata nel dibattito intellettuale. Tuttavia, ha aperto delle strade, soprattutto in fase critica, e ha provato davvero a cambiare il pensiero contemporaneo. Non è poco e, per questo, gli dobbiamo molto.