Tecnosofia


Da case di cura a case che curano

Invecchiare nella propria casa: è questa la frontiera politica e sociale su cui l’Italia sta investendo, con il raggiungimento dell’obiettivo del 10% di anziani over 65 bisognosi di cura assistiti tramite l’Assistenza Domiciliare Integrata (ADI).

Un traguardo che vale 250 milioni di euro del PNRR spesi nel 2025 e che il ministro Schillaci ha rivendicato come prova che la cura domiciliare può davvero diventare il pilastro della sanità del futuro. Ma basta questo a ripensare il modo in cui vivremo – e accompagneremo – la vecchiaia?

L’investimento sull’ADI è certamente un passo avanti: sposta l’asse dalle strutture alle case, dagli ospedali ai quartieri, e restituisce dignità all’idea che la fragilità possa essere affrontata senza allontanarsi dal proprio mondo quotidiano per essere relegati in luoghi di sofferenza (ospedali) o voliere dorate (le RSA). L’invecchiamento attivo – sostenuto da un miliardo di euro della legge delega – completa questo quadro: partecipazione sociale, movimento, relazioni, stimolo cognitivo. Non solo sopravvivere più a lungo, ma vivere meglio più a lungo.

Eppure c’è un punto debole evidente: questa politica si regge sugli operatori umani, figure professionali che già oggi scarseggiano. L’Italia è uno dei Paesi europei con il rapporto infermieri/popolazione più basso e gli investimenti in formazione, assunzione e valorizzazione non hanno ancora colmato il divario. Se non si integra l’ADI con una strategia più ampia, il rischio è duplice: da un lato schiacciare gli operatori disponibili in carichi insostenibili; dall’altro lasciare molte famiglie senza risposta, soprattutto nelle aree interne e nei quartieri periferici dove il bisogno è più alto, proprio nel momento in cui si persegue, almeno sulla carta, la riduzione delle diseguaglianze sociali.

Per non trasformare un’ottima idea in una promessa mancata, servono tre mosse. La prima: una infrastruttura territoriale forte, capace di coordinare servizi sanitari e sociali senza rimpalli tra enti. La seconda: un’accelerazione tecnologica intelligente, che sostenga – e non sostituisca – la relazione umana. Teleassistenza, sensori domestici, monitoraggio remoto non sono fantascienza: sono strumenti che possono anticipare le crisi, ridurre le visite inutili, dare sicurezza agli anziani e alle famiglie. E i robot? Non saranno probabilmente badanti d’acciaio tuttofare a sostituire caregiver in carne ed ossa, ma robot sociali, assistenti vocali evoluti, dispositivi che aiutano a sollevare pesi, ricordare farmaci, rilevare cadute o semplicemente conversare possono alleggerire il lavoro degli operatori e migliorare la qualità della vita quotidiana. La sfida è etica e culturale prima che tecnica: usare la tecnologia per ampliare la capacità di cura, non per delegarla.

La terza mossa è forse la più importante: una comunità attivata, perché l’invecchiamento in casa funziona solo se non si è soli. Vicinato, associazioni, reti civiche possono diventare parte integrante del welfare. È un investimento che non costa miliardi, ma genera un valore enorme.

Invecchiare a casa propria è molto più di una scelta sanitaria: è una visione del Paese che vogliamo. Una società che considera la longevità non un peso ma, finché possibile, un patrimonio. Una politica che vuole davvero funzionare deve guardare molto oltre l’obiettivo conseguito del 10% e costruire un ecosistema di cura in cui persone, tecnologie e comunità agiscano insieme.


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In questo numero hanno scritto:

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Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
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Guido Saracco: già Rettore Politecnico di Torino, professore, divulgatore, ingegnere di laurea, umanista di adozione.