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Psicoeconomia della cura in Italia e in Giappone

La cura, in ogni società, è un gesto che intreccia affetto e responsabilità. Ma oggi, in Italia come in Giappone, questo gesto sta diventando un nodo psicoeconomico: un equilibrio instabile tra amore, dovere e sostenibilità finanziaria.

In Italia, la cura resta un atto profondamente emotivo, quasi sacrale, ma anche un vincolo che imprigiona. Chi si occupa dei genitori anziani o dei figli adulti spesso sacrifica sé stesso, tra senso di colpa e dedizione, tra rabbia silenziosa e solitudine. Le donne continuano a reggere il doppio carico di lavoro e assistenza, mentre i giovani, precari e dipendenti, faticano a emanciparsi, rimanendo “a carico” della generazione intermedia. È un circuito chiuso, in cui la solidarietà familiare diventa sostituto di un welfare fragile.

In Giappone, invece, la cura è codificata come dovere filiale, l’oyakōkō: non un’opzione morale, ma una norma sociale. Tuttavia, la modernità ne ha eroso la praticabilità. Molti adulti vivono lontano dai genitori, inghiottiti da orari di lavoro infiniti e città distanti. Cresce così la solitudine intergenerazionale: anziani che muoiono soli – il fenomeno del kodokushi – e figli unici schiacciati dal peso di due genitori e quattro nonni. Qui il fallimento nel conciliare lavoro e cura è vissuto come colpa sociale, un fallimento dell’essere umano produttivo. Sappiamo a quali estremi possono culturalmente arrivare i giapponesi quando fronteggiano un fallimento.

La “generazione della cura” italiana è emotivamente coinvolta, quella giapponese moralmente obbligata. In entrambe, la cura diventa comunque sacrificio personale, il riflesso di una società che chiede di prendersi cura senza prendersi carico con lungimiranza del problema.

Dietro la dimensione psicologica, si apre poi quella economica: il “care gap”. In Italia, meno del 10% degli over 65 riceve assistenza pubblica domiciliare. Le famiglie si arrangiano, sostenendo costi crescenti per badanti e RSA, mentre si consolida un’economia sommersa della cura, fatta di lavoro informale e relazioni di necessità. Intanto, centri di ricerca come l’IIT di Genova e il Politecnico di Torino sperimentano soluzioni di robotica assistiva, segnale di un tentativo – ancora elitario – di innovazione sociale, con una sola azienda di robotica che tenta l’ingresso in questo potenziale mercato (Oversonic Robotics).

Il Giappone, al contrario, dispone di un sistema pubblico di assicurazione per la non autosufficienza che copre circa il 70% dei costi e investe massicciamente in robotica assistiva. Esoscheletri, robot per la movimentazione, dispositivi empatici con intelligenza artificiale e sensori biometrici: la tecnologia diventa qui estensione del gesto di cura. Eppure, anche qui, la domanda supera l’offerta. I costi elevati dei robot meccanico-assistivi ne limitano la diffusione, e l’obiettivo nazionale di 600.000 unità operative entro il 2030 appare lontano da conseguire in pratica.

In fondo, Italia e Giappone si specchiano: due società che invecchiano rapidamente, dove la cura diventa insieme risorsa e ferita. La prima si affida ai legami affettivi, la seconda al senso del dovere e all’efficienza tecnologica. Entrambe cercano una via per rendere sostenibile l’umano, un equilibrio tra empatia e innovazione, tra dovere e desiderio, tra cura e sopravvivenza.

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In questo numero hanno scritto:

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Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
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Giovanni Maddalena (Termoli): filosofo del pragmatismo, della comunicazioni, delle libertà. E, ovviamente, granata
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Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro