Mi legge un articolo di Talbot Brewer in cui si sostiene che normalmente li si difende per i motivi sbagliati. Perché preparano bene a lavori importanti che richiedono flessibilità - il celebre esempio di Marchionne filosofo (mancato) - o perché servono per diventare cittadini migliori, come dice Martha Nussbaum. Due risposte sbagliate, dicono Brewer e Nubiola, perché irrilevanti nel merito. Come se uno giocasse a calcio per diventare famoso o per la doccia di fine partita.
A che cosa servono questi studi? Qual è il loro destino? L’idea di Nubiola e di Brewer è che in fondo si tratti di un mondo a parte, bello perché volto solo al miglioramento di se stessi. È una realtà incantata, come Istanbul, sospesa su tre mari e due continenti, tra due (o forse tre) imperi e due religioni. Come Istanbul, la cultura umanistica “è una città a parte, con pochi membri permanenti e con tanti cittadini giovani che cambiano spesso”, dicono i due autori. È una versione affascinante ma non vera. Certo, ogni disciplina ha il suo aspetto personale e fatale, e ci sono sempre temperamenti e menti fatti per una disciplina piuttosto che per l’altra, come un talento genetico o educativo, oppure, a volte, come una malattia, magari temporanea. A chi ha talento per la storia, piace proprio scoprire che il giorno tale dell’anno 1204 a Costantinopoli accadde la tal cosa, mentre chi ama la filosofia tende a farsi una domanda in più e, alle volte, di troppo. Alcuni perdono sonno e umore per la traduzione giusta di una parola, altri per la precisione di un’inferenza o la decifrazione di un manoscritto. Ma in realtà non è diverso da ciò che accade con la fisica e la matematica, con la chimica e l’astronomia.
Il fatto è che tutte le discipline tendono a conoscere la realtà, in tutti i suoi infiniti aspetti. Per questo, nella loro nascita, sono tutte filosofie che trovano specializzazioni e, sebbene ad alcuni ripugni, tutti gli esseri umani sono un po’ filosofi che poi si specializzano. Uno dei grandi danni della cultura ottocentesca è stata la divisione dei campi, umanistici e scientifici, dello spirito e della natura, soft e hard. Così, le discipline hard tendono a essere utilizzate senza significati e quelle soft a significare senza utilità. Non appena uno ricerca davvero, per professione o per passione, per utilità commerciale o devozione, si rende conto che sono definizioni deboli, che non tengono conto della totalità dell’essere umano. Gli studi umanistici sono un modo di conoscere il mondo, come lo sono quelli di altre discipline. Né utilità mercantilistica né educazione sociale, ma nemmeno un miglioramento di sé in una città incantata.
Tutte le discipline nascono unitariamente dal desiderio di conoscere e, ad alto livello, tutte si mescolano. Infinito è il pozzo del desiderio umano di conoscere come infinita è la realtà. Siamo fatti per conoscere la realtà e le strade del conoscere, pur molteplici nei metodi, sono unitarie nel fine. Così, restando in tema con il convegno turco e la magia della città, vale qui la pena citare il matematico-chimico-fisico-logico-filosofo Charles S. Peirce che scriveva: “Se una fata mi chiedesse quale dono desidero, chiederei la beatitudine di comprendere come nasce la fecondità dell’universo — come esso possa generare una varietà dopo l’altra, come la possibilità diventi realtà”. Sì, è forse questo il desiderio unificante di ogni ricerca, di ogni disciplina, di ogni vita. Ed è per questo che bisogna cominciare da quell’aspetto per cui si ha talento e che bisognerebbe pensare curricula di studi molto diversi dagli attuali.
