Pensieri e pensatori in libertà


Il dramma dell’overtourism è nella mente

Il turismo non c’è sempre stato né sempre è stato considerato necessario. Un po’ di storia può aiutare. Se si eccettuano i pellegrinaggi medievali, l’antesignano del turismo in epoca moderna è il grand tour del millesettecento che si concentrava sull’Italia per le sue arti antiche e rinascimentali ma che spesso includeva Francia, Svizzera, Germania e Grecia. Il grand tour era un viaggio di scoperta, di conoscenza nuova e, alle volte, era l’occasione in cui i posti visitati ricevevano vantaggi dai visitatori in termini di conoscenza, oltre che economici. 

Per esempio, è grazie al grand tour di Goethe che le antichità romane rifluiscono nel romanticismo. È un piccolissimo Mozart in tour che studierà e poi riproporrà in forma nuova alcune musiche italiane.

Il problema dell’overtourism contemporaneo non è solo la quantità di gente ma il modo in cui viene concepito il visitare. Il turismo è ormai considerato necessario per vivere. È uno status sociale, a prescindere dal fatto che non sia affatto riposante, spesso di basso livello, alle volte per mete non più significative di quelle che si lasciano, scelte solo in base al costo limitato delle tratte aeree.

Il problema effettivo del turismo attuale è culturale: non è un viaggio che fa conoscere qualcuno o qualcosa, tanto meno che aiuti a scoprire qualcuno o qualcosa, ma che si fa per validare delle caselle che la società richiede. Così, se vado a Parigi due giorni, devo vedere più cose possibili: devo obbligatoriamente spuntare la casella del museo d’Orsay, del Louvre, della Sainte Chapelle, del Centre Pompidou (è chiuso fino al 2030, non andateci!), del bateau mouche, e ovviamente di Notre Dame e Tour Eiffel. Senza ordine, senza storia, senza approfondimento, e soprattutto senza mai tempo per pensare al significato. Nel turismo dell’overtourism non si può perdere tempo, non si deve avere tempo. Il tempo deve essere tutto riempito. Due parole di una guida, una visita di corsa per dire che ci sono stato, selfie, foto con bacio e via, stanchi morti, tra alberghi appena decenti e attese infinite all’aeroporto. Al ritorno bisogna scriversi da qualche parte ciò che si è visto perché a nulla si è dato il tempo di imprimersi nella coscienza. La visita non lascia quasi nulla a chi la compie come alla gente e alla città che si è visitato. Non una riga, non una poesia, non una musica, non un canto. Qualche soldo, buono per tirare avanti ma non per migliorare. In realtà, non si riceve niente e non si lascia niente. Non è sicuramente riposo, ma è almeno contentezza? Un po’ sì, quella di uscire dal solito, di distrarsi, cioè di non pensare ai problemi di sempre. Ma non è la contentezza profonda, quella di capire e amare qualcosa di più della vita e del destino, proprio e altrui.

Del resto, è questo il gioco di tutto il CEO-capitalism della nostra epoca: vendere a sempre più gente merci senza significato e di valore sempre più basso. Solo che la gente prima o poi si accorgerà di non essere contenta e allora preferirà restare a casa, viaggiando solo quando occorre, magari per compiere pellegrinaggi o grand tour, per tornare a conoscere e ad amare.

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Zafferano

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In questo numero hanno scritto:

Angela Maria Borello (Torino): direttrice didattica scuola per l’infanzia, curiosa di bambini
Umberto Pietro Benini (Verona): salesiano, insegnante di diritto e di economia, ricercatore di verità
Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
Roberto Dolci (Boston): imprenditore digitale, follower di Seneca ed Ulisse, tifoso del Toro
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Barbara Nahmad (Milano): pittrice e docente all'Accademia di Brera. Una vera milanese di origini sefardite
Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro
Guido Saracco: già Rettore Politecnico di Torino, professore, divulgatore, ingegnere di laurea, umanista di adozione.