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Socioeconomia della cura in Italia e Giappone

Italia e Giappone sono due tra i Paesi più emblematici al mondo per comprendere come la fascia tra i 40 e i 60 anni — genitori di figli adulti o adolescenti, ma anche figli di anziani longevi — regga ormai la maggior parte del carico sociale.

Questo nei prossimi anni non potrà che peggiorare.

Entrambi i paesi hanno una natalità tra le più basse del pianeta e una longevità tra le più alte, ma incarnano due modelli diversi di risposta sociale e culturale allo stesso squilibrio. Nel Giappone, la piramide demografica è già diventata a fungo: pochi giovani alla base, molti anziani al vertice. In Italia, la situazione è simile ma più eterogenea territorialmente (Centro-Nord più anziano, Sud più giovane).

Economicamente parlando l’Italia fronteggia una crescita stagnante da oltre vent’anni, salari bassi, precarietà diffusa. Il welfare pubblico è in ritirata, soprattutto nei servizi domiciliari e nelle strutture per anziani, proprio mentre servirebbero maggiori coperture per l’aumento di oggi e in prospettiva degli anziani bisognosi di cura. La famiglia rimane il pilastro del sistema di cura, ma con meno componenti e donne più attive nel lavoro retribuito e con meno tempo per assistere a casa di prima. Si tenta di supplire con con badanti straniere, creando una catena globale della cura (donne dell’Est Europa o del Sud del mondo che si prendono cura degli anziani italiani), ma lo sviluppo di questi Paesi è destinato a prosciugare questi flussi. Infatti il benessere che si affaccia in questi paesi offre da un lato opportunità di lavoro in patria e dall’altro, come sempre, anche lì un calo della natalità.

Il Giappone ha invece un sistema economico ancora solido, ma rigidissimo: orari di lavoro lunghi, cultura aziendale totalizzante. Meno tempo insomma per i propri anziani per motivi strutturali della organizzazione del lavoro. L’assistenza familiare resta un dovere morale, ma la solitudine sta facendosi sempre più diffusa: anziani soli, adulti senza figli. Il governo giapponese ha creato un sistema nazionale di long-term care insurance a partire dall’anno 2000, più strutturato di quello italiano. Ma questo non risulta oggi sufficiente per carenza di personale e costi sanitari crescenti. Da un lato anche qui cresce il numero dei “kaigo-jigyōsha” (prestatori di cura), ma molti sono migranti asiatici sottopagati che si integrano malamente nella società giapponese. Si comincia dunque a ritenere inevitabile in Giappone un uso crescente delle tecnologie per sopperire a questa criticità. Aiuta in questo senso la cultura animista shintoistica che permea la società giapponese e restituisce alle tecnologie piena titolarità spirituale. Come dire che i robot siano parte della società stessa.

Pur essendo il peso del lavoro di cura degli anziani scaricato sulla generazione mediana in entrami i paesi, per ora il Giappone ha una risposta più istituzionalizzata e integrata dalla tecnologia, mentre l’Italia ne ha una più familistica e informale. Questo diverso approccio ha però anche ragioni psicologiche e culturali, fattori in cui i nostri due popoli segnano ulteriori differenze. Le scopriremo nel prossimo editoriale.

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In questo numero hanno scritto:

Umberto Pietro Benini (Verona): salesiano, insegnante di diritto e di economia, ricercatore di verità
Angela Maria Borello (Torino): direttrice didattica scuola per l’infanzia, curiosa di bambini
Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
Roberto Dolci (Boston): imprenditore digitale, follower di Seneca ed Ulisse, tifoso del Toro
Barbara Nahmad (Milano): pittrice e docente all'Accademia di Brera. Una vera milanese di origini sefardite
Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro
Guido Saracco: già Rettore Politecnico di Torino, professore, divulgatore, ingegnere di laurea, umanista di adozione.