LA Caverna


Identità culturale: una trappola concettuale?

Nel cuore di un’epoca attraversata da conflitti e fratture sempre più marcate – guerre, migrazioni, nazionalismi, polarizzazioni ideologiche – torna con forza il richiamo alla «difesa dell’identità culturale». È un appello che si presenta come esigenza legittima di riconoscimento, ma spesso cela dinamiche di esclusione, irrigidimento e chiusura. Il concetto di identità culturale lungi dall’essere una risorsa neutra, in molti casi, è una vera e propria trappola concettuale, generatrice di comunitarismi, indifferenza relativistica e conflitti.

Il concetto di “identità culturale” tende a essere inteso in modo essenzialista, come se ogni cultura fosse una realtà monolitica, chiusa in sé stessa, dotata di tratti stabili e immutabili. In questa prospettiva, l’identità diventa un confine invalicabile, un “noi” contrapposto a un “loro”, un patrimonio da difendere dall’invasione esterna. «Appena si parla di identità, si erige una frontiera» (Jullien, Contro l’identità, 2016). L’uso pubblico del concetto di identità finisce inevitabilmente per irrigidire le culture, escludere l’alterità e legittimare atteggiamenti difensivi o aggressivi.

Questa impostazione produce due effetti speculari e ugualmente problematici: da un lato il comunitarismo integralista, che assolutizza la propria cultura a scapito delle altre, fino a sfociare nel fondamentalismo; dall’altro un relativismo inerte, che equipara ogni cultura per evitare conflitti, rinunciando però a qualsiasi confronto critico. Entrambi gli approcci conducono a una paralisi del pensiero e della convivenza. Contrariamente a quanto suppone l’essenzialismo identitario, la cultura non è un recinto ma un processo dinamico, in continuo divenire. Essa si forma e si trasforma attraverso lo scambio, la contaminazione, l’incontro con l’altro.

L’“illusione della destinazione unica” (Amartya Sen, Identity and Violence: The Illusion of Destiny, 2006) riduce le persone a una sola appartenenza, dimenticando la pluralità di influenze che le costituiscono. La storia dell’umanità è storia di ibridazioni. Il Rinascimento europeo, per esempio, non sarebbe stato possibile senza la trasmissione del pensiero greco attraverso il mondo arabo. Le stesse “identità europee” non sono mai state omogenee, ma risultano da stratificazioni complesse di tradizioni, lingue, religioni e influenze esterne. «Le culture si fanno contaminando» (Kwame Anthony Appiah, Cosmopolitismo. L’etica in un mondo di estranei, 2006). Respingere questa verità equivale a negare l’essenza stessa della cultura. Le culture non devono necessariamente convergere o fondersi, ma possono pensarsi reciprocamente, riconoscendo di essere realtà aperte, porose, in continua trasformazione. L’incontro non implica né assimilazione né tolleranza passiva, ma la costruzione di uno spazio relazionale dove si coltiva la differenza come risorsa. Charles Taylor, nel suo saggio Multiculturalismo (1992), sostiene la necessità di un riconoscimento reciproco tra culture.

Per evitare il rischio di una moltiplicazione delle rivendicazioni identitarie è necessario spostare il focus dal riconoscimento identitario alla relazione dinamica che rende possibile il dialogo. Alla base del superamento della trappola identitaria c’è l’idea di una universalità non astratta ma mobile, che si costruisce nel tempo attraverso l’incontro delle differenze. Questa è l’alternativa: una visione del mondo che non costruisce barriere, ma ponti di senso, nella consapevolezza che l’unico terreno di pace possibile è quello della relazione viva e continua tra culture. «Non dobbiamo scegliere tra una cultura e l’altra, tra l’universale e il particolare: dobbiamo imparare a vivere con il fatto che siamo entrambi» (Appiah, In My Father’s House, 1992). L’universalità, in questa prospettiva, non è un modello da imporre, ma una pratica dialogica, una tensione etica che nasce dal riconoscimento e dalla valorizzazione reciproca. Ripensare il concetto di identità culturale è una necessità urgente per affrontare le sfide del nostro tempo. Finché continueremo a concepire la cultura come un blocco monolitico da difendere, produrremo esclusione, conflitto e paura. Solo riconoscendo che le culture sono processi storici e vitali, in continua trasformazione, potremo costruire una società capace di abitare le differenze, non temerle, una società in cui la diversità non sia minaccia, ma possibilità di crescita vicendevole.

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In questo numero hanno scritto:

Umberto Pietro Benini (Verona): salesiano, insegnante di diritto e di economia, ricercatore di verità
Angela Maria Borello (Torino): direttrice didattica scuola per l’infanzia, curiosa di bambini
Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
Roberto Dolci (Boston): imprenditore digitale, follower di Seneca ed Ulisse, tifoso del Toro
Barbara Nahmad (Milano): pittrice e docente all'Accademia di Brera. Una vera milanese di origini sefardite
Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro
Guido Saracco: già Rettore Politecnico di Torino, professore, divulgatore, ingegnere di laurea, umanista di adozione.