Ogni volta che si apre un dibattito sulla scuola italiana, si alza un coro di nostalgie: “un tempo c’era più disciplina”, “gli studenti erano più seri”, “gli insegnanti erano rispettati”. Una narrazione che fa presa, perché rassicurante: il passato appare semplice, il presente appare complesso. Ma questo mito del “declino” rischia di offuscare la realtà. La scuola italiana di ieri non era un paradiso: era una scuola selettiva, autoritaria, classista.
La dispersione superava il 50%, l’università era per pochi, l’analfabetismo diffuso. Quella scuola non elevava tutti, ma escludeva molti. Rimpiangerla significa rimpiangere una scuola che tradiva la Costituzione, e in particolare l’articolo 3, che chiede allo Stato di “rimuovere gli ostacoli” che impediscono a ciascuno di sviluppare pienamente la propria personalità. Nonostante difficoltà reali, la scuola di oggi ha conquistato traguardi impensabili per le generazioni precedenti: la dispersione scolastica è scesa sotto il 10% (Eurostat, 2024); quasi tutti completano il ciclo secondario; ragazze, studenti di famiglie svantaggiate e figli di migranti hanno accesso in misura crescente; il livello medio di alfabetizzazione è molto più alto rispetto a sessant’anni fa. Non si tratta di “buonismo”, ma di rigore democratico: la scuola che include è più impegnativa, non più facile.
Un altro cliché oppone il professore di ieri, temuto e rispettato, a quello di oggi, descritto come debole facilitatore. Ma la vera autorevolezza non nasce dall’autoritarismo, bensì dalla competenza culturale, didattica e relazionale. le pedagogie attive non hanno svuotato il ruolo del docente: lo hanno arricchito. Le ricerche internazionali lo confermano: metodologie cooperative e motivanti riducono i divari e migliorano i risultati. In questo senso, l’insegnante di oggi deve essere più preparato di quello di ieri. Il problema più serio non è dentro le aule, ma fuori. Negli ultimi decenni la scuola è stata attraversata da riforme top-down, poco partecipate, spesso più mediatiche che pedagogiche. Dalla “Buona scuola” al piano Valditara, fino alla retorica dell’“aziendalizzazione”, emerge un modello di governance post-democratico: si parla di scuola come bene pubblico, ma si decide a porte chiuse. La logica neoliberale riduce la scuola a strumento di adattamento al mercato del lavoro, dimenticando che la sua missione primaria è formare cittadini critici e consapevoli.
Guardare avanti significa non fermarsi al confronto nostalgico tra ieri e oggi, ma riconoscere i fronti che si aprono per la scuola del domani: Digitale e intelligenza artificiale: opportunità straordinarie, se usate in modo critico; rischi enormi, se ridotte a strumenti di controllo o semplificazione banale. Inclusione vera: non solo di studenti certificati, ma anche di chi vive in povertà educativa, in periferie marginalizzate, in famiglie fragili. Educazione alla cittadinanza e alla sostenibilità: in un mondo segnato da crisi climatiche, conflitti e disuguaglianze, la scuola è il primo laboratorio di democrazia. Identità europea e globale: preparare i giovani a essere cittadini del mondo senza rinunciare alla centralità della cultura umanistica e del pensiero critico. Il vero pericolo non è che la scuola italiana sia “più debole” di quella del passato: è che smetta di credere nella propria missione.
La nostalgia del rigore perduto e le pressioni del mercato rischiano di ridurre la scuola a un luogo di mera istruzione tecnica o di selezione sociale. Eppure la scuola è molto di più: è il cuore della democrazia. È lo spazio in cui si costruisce la coscienza critica, si impara a mediare, a discutere, a dubitare. Come ricordava Churchill, la democrazia è un sistema “terribile e faticoso”, ma le alternative sono peggiori. Così è anche per la scuola: selezionare i pochi è più comodo, includere i molti è più difficile. Ma solo una scuola che include garantisce davvero futuro, giustizia e libertà.