Anche alcuni vecchi critici, su tutti Francesco Bonami in alcuni articoli, sembrano aver aggiustato meglio le proprie idee riguardo gli ultimi trent’anni di mercato dell'arte contemporanea.
Non hanno certo fatto abiura, ma hanno sottolineato in modo inedito, per loro, le illusioni, il doping dei prezzi e gli svarioni critici di tale mercato, compreso gli artisti blue chips, le fiere e le mega galleries (c'è da ricordare, però, che Bonami siede nel cda di Gagosian). Più che un'ammissione di responsabilità, questo piglio critico tardivo pare essere solo un riposizionamento, magari dettato dal mercato stesso. È comunque un bene che se ne parli.
Tutto parte dal fatto che uno dei più importanti galleristi americani, Tim Blum, con galleria a Los Angeles e Tokio, ha gettato la spugna, dichiarando che le spese sono talmente folli che non è più in grado di gestire la cosa e che “la passione per l’arte è stata distrutta dall’ossessione per il guadagno”. Non è l’unico. Altre gallerie storiche europee chiudono i battenti perché i costi di gestione sono proibitivi e l’aumento sbalorditivo dei prezzi delle opere è del tutto sconsiderato. Il che a lungo andare ha prodotto un danno. In precedenza, però, si erano messi tutti alacremente al lavoro, compreso Bonami e tutti gli altri curatori acquiescenti, per rendere il mercato dell’arte simile a Wall Street.
In molte occasioni, in questa rubrica, ne ho parlato in modo critico. Ovviamente mi fa piacere che qualcuno adesso faccia "outing", perché nessun intellettuale, nessun critico d’arte ha mai reagito a una tale deriva, forse per paura di rimanere isolati o forse perché opporsi non solo a un sistema ma anche a una sorta di narrazione mitica è effettivamente complicato. O molto faticoso.
Gli artisti se ne occupano di meno, anche perché, come i loro compagni di avventura in ogni epoca, spesso hanno le tasche vuote. I soldi ci sono, quando ci sono, solo per "i progetti", gli artisti sono sempre arrivati "dopo" e gran parte di loro si è rassegnata. Che ci sia ora una revisione del sistema è cosa necessaria. Non fosse altro che per l'arte stessa: la bellezza non è la derivazione di un valore economico, non è un’azione di Borsa e non produce dividendi, se non per caso o per reale merito.
Certo chi poteva, i soldi li ha fatti, ma è meglio per tutti che ritorni centrale la sostanza, anche se è parola un po’ desueta. E anche la bellezza, che a suo modo è una forma di verità e di libertà: alla fine non la può imporre nessuno, né le fiere né le mega galleries né le case d’asta.