LA Caverna


Sempre connessi, sempre più soli: il paradosso del nostro "secolo antisociale"

La solitudine contemporanea non è fatta di silenzi, ma del frastuono ininterrotto delle notifiche. È questo il paradosso che caratterizza la nostra epoca: un mondo iperconnesso in cui, paradossalmente, il ritiro sociale cresce a ritmi vertiginosi. 

La solitudine autoimposta sta diventando uno dei fenomeni sociali più rilevanti del XXI secolo, al punto da farci parlare di un vero e proprio “secolo antisociale”. (Derek Thompson, giornalista americano). I segnali erano visibili già alla fine del ‘900, quando Robert Putnam, scienziato politico americano, descriveva il progressivo rallentamento del “metabolismo sociale” americano: spazi pubblici svuotati, associazioni sempre meno frequentate, comunità disgregate. Si continuava a giocare a bowling, ma ognuno per conto proprio. Quel capitale sociale che teneva insieme la società iniziava allora a sgretolarsi (Putnam, Bowling alone. The collapse and revival of American Community, New York, Simon & Schuster, 2000; trad. it. Capitale sociale e individualismo: crisi e rinascita della cultura civica in America, Bologna, il Mulino 2004).

Oggi la stessa dinamica si è estesa su scala globale, alimentando sfiducia, stanchezza verso la dimensione collettiva e un diffuso ripiegamento domestico. A sostenere questa trasformazione è il capitalismo digitale, che ha convertito le nostre case nel fulcro della vita quotidiana. Lavoriamo, acquistiamo, studiamo, ci curiamo psicologicamente dentro uno spazio che diventa, insieme, rifugio e prigione. Il filosofo tedesco Peter Sloterdijk scrive: Viviamo in “microbolle” di intimità protetta: ciascuno nella propria capsula tecnologica. (Peter Sloterdijk, Sfere. Bolle. Microsferologia,Vol.1, Raffaello Cortina editore, 2014) Eppure non si tratta di una solitudine muta, ma, piuttosto, di una solitudine densamente popolata da presenze smaterializzate: i social, le piattaforme, gli schermi. Siamo sempre esposti allo sguardo dell’altro, ma raramente lo incontriamo davvero.

Questa visibilità costante, nutrita dal “capitalismo della sorveglianza” che trasforma ogni gesto in dato, non crea relazioni profonde: produce ansia, confronto incessante, senso di giudizio. La cosiddetta “generazione ansiosa” descritta da Jonathan Haidt (La generazione ansiosa, Rizzoli, 2024) ne è la manifestazione più evidente: attenzione frammentata, sonno ridotto, paura del contatto diretto. Un’immagine letteraria offre una possibile risposta al come uscirne: la matita di Virginia Woolf. Nel suo saggio Passeggiando per le strade di Londra, un semplice pretesto — uscire per comprare una matita — diventa un atto di liberazione. (Street haunting: A London adventure, ediz. italiana e inglese, Damocle, 2018). Oltrepassare la soglia di casa significa spezzare il guscio identitario imposto dall’ambiente domestico e unirsi all’“esercito anonimo dei pedoni” che popolano la città. L’esposizione, allora, non è solo quella agli algoritmi: è la scelta consapevole di esporsi alla luce, agli sguardi, alla presenza viva degli altri.

Parafrasando Hegel, l’identità si costruisce rischiandosi nel mondo, non proteggendosi da esso. La vita, quella autentica, non si preserva nell’isolamento, ma nel confronto, nei conflitti fecondi, nella condivisione di esperienze. Non si tratta di demonizzare il digitale, ma di ristabilire un equilibrio tra ciò che accade dentro lo schermo e ciò che accade fuori. Abbiamo bisogno di una “matita”, di un qualsiasi pretesto che ci inviti a uscire da noi stessi e a rientrare nel flusso del mondo. Forse qualcosa sta già cambiando: tornano le letture pubbliche, le attività artigianali, gli incontri culturali e comunitari. Il nostro destino si gioca qui, in questa tensione tra alienazione e partecipazione, tra sorveglianza e libertà. La connessione digitale non basta: abbiamo bisogno di tornare a vivere, davvero, nello spazio condiviso.

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In questo numero hanno scritto:

Umberto Pietro Benini (Verona): salesiano, insegnante di diritto e di economia, ricercatore di verità
Angela Maria Borello (Torino): direttrice didattica scuola per l’infanzia, curiosa di bambini
Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
Roberto Dolci (Boston): imprenditore digitale, follower di Seneca ed Ulisse, tifoso del Toro
Giovanni Maddalena (Termoli): filosofo del pragmatismo, della comunicazioni, delle libertà. E, ovviamente, granata
Barbara Nahmad (Milano): pittrice e docente all'Accademia di Brera. Una vera milanese di origini sefardite
Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro
Guido Saracco: già Rettore Politecnico di Torino, professore, divulgatore, ingegnere di laurea, umanista di adozione.