Pensieri e pensatori in libertà


Terminus Malaussène. La sbiadita foto degli anni ’90

Terminus Malussène è l’ultima puntata della saga inventata da Daniel Pennac ed è purtroppo la meno riuscita. Pennac è stato un autore importante della letteratura contemporanea per il tentativo di scrivere romanzi anti-psicologici e anti-realisti, fiabe postmoderne. 

Le avventure dell’impossibile famiglia Malussène con i suoi nomi propri assurdi (Verdun, Maracuja, Cest un ange, ecc,), con la sua vitalità strabordante e la sua curiosità mentale infinita hanno riempito di allegria tante pagine degne di essere lette. Pennac, che cita Péguy e Grossman, a cui è dedicata La Fata carabina, era il meglio dell’impostazione multiculturale. La sinistra francese popolare nel suo buon senso e nella sua simpatia: l’amicizia e le relazioni personali valgono più di regole e le leggi, la vita è sempre un bene e uno stupore, fatto di mille incontri spesso casuali, il bene è sempre bene, chiunque lo dica o lo faccia. “Quando incontri uno sguardo umano nella folla, seguilo!” si diceva ne La fata carabina.

Terminus Malaussène non è più un piacere. Pennac parla ai suoi lettori, senza cercarne di nuovi. Completa la storia e le notizie, per far finire la serie senza vuoti. Così tanto senza vuoti che deve far tornare anche tutti gli elementi inesplicati dei racconti precedenti sulla figura del capo dei cattivi, togliendo ogni spazio al caso persino retrospettivamente, nelle puntate precedenti.

Non solo, Pennac deve chiudere i conti anche ideologicamente e quindi si arrabatta per dire che la famiglia Malussène è l’antidoto al male, salvo poi dire che però non bisogna considerarla in quanto famiglia, anzi come una critica alla famiglia. D’altro canto, i cattivi a loro sono volta sono tali perché non hanno il senso di appartenenza a nessuna famiglia, religione, partito. Però sono cattivi anche perché invece hanno il senso di appartenenza alla loro famiglia criminale. E così via, tra esternazioni e contraddizioni, in modo da far rientrar tutte le idee e i pregiudizi di moda: l’ambientalismo, la pedofilia dei preti, la svolta LBTQ+, l’attacco a banche e banchieri. Pennac inserisce una spruzzatina di tutto ciò che ci deve essere a costo di snaturare personaggi e trama. È la forma attuale del “tutti i salmi finiscono in gloria”.

Peccato, ma la parabola di Pennac è significativa. Gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso erano segnati dal cosiddetto “nichilismo gaio”, con la voluta perdita di significati e concetti troppo pesanti. Si può vivere senza di essi, senza valori con “V” maiuscola – si pensava allora – basta essere buoni. Solo che poi, dalle torri gemelle in avanti (2001), si è visto che non è così facile essere buoni, il mondo globalizzato e potenzialmente unito ha cominciato a frantumarsi, la grande crisi economica (2008) ne ha messo in crisi il mito di inevitabile progresso. Per essere buoni si è dovuti ricorrere a un’etica sempre più stringente, fino alla logica woke degli ultimi anni.

Se la famiglia Malaussène fosse cresciuta davvero, avremmo dovuto trovarla a giostrare il proprio linguaggio colorito con il politicamente corretto, a polarizzarsi tra sentire popolare ed élitario, a decidere se far prevalere, o come combinare, il senso di appartenenza al clan e quello di universalità.

Invece, la famiglia mito di Pennac si ferma alla sua immagine anni ’90, come una foto sbiadita di quando si era giovani. Un’occasione mancata di affrontare i problemi culturali effettivi, ma è forse l’occasione per rileggere i due migliori risultati della serie, Il Paradiso degli orchi e La Fata carabina: nel loro tempo, erano davvero belli e originali.


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