Di recente sono stata ad un evento che ricordava l’uccisione di Itzhak Rabin, il 4 novembre del 1995 e che cercava di tratteggiare la sua figura: la sua vita di soldato e poi di politico, la pace di Camp David, la stretta di mano con Arafat, che gli costò la vita. Una lunga serata interessantissima e varia, organizzata dalla Sinistra per Israele, con esponenti del comune di Milano. Arrivarci è stato irto di ostacoli, dato che qualche centinaia di persone aveva deciso di protestare, non si sa bene per cosa, visto che l’ingresso era libero.
Perché non entrare? Bastava varcare la soglia per ricordare dei tempi in cui la pace è stata davvero vicina. Voci preziose, come quelle della figlia di Shimon Peres, fuori dal coro, che potete vedere a questo link. Mi ha molto impressionato la protesta fuori che continuava, la polizia antisommossa, ma ancor di più il costante reiterarsi di slogan, frasi fatte, urla, una sorta di estasi visionaria , autoreferenziale, che nulla a che fare con il convivere civile. Un “noi contro di loro” che viene oggi amplificato dai mezzi di comunicazione digitale.
Di recente mi è capitato tra le mani un testo, “Sul senso della vita” di Viktor Frankl, una serie di conferenze dello psicanalista, all’indomani della sua liberazione dal lager di Auschwitz, precisamente nel marzo del 1946, di grande interesse sociale e filosofico. A dispetto di quanto aveva appena vissuto, alla tragedia di quei giorni, da quelle righe traspare un senso di pienezza e di ottimismo, una comprensione dei problemi umani, un’adesione completa alla vita, al suo scopo, attraverso l’azione, all’amore e anche alla sofferenza. Arrivando addirittura ad affermare che più le sfide e i problemi sono ardui, più possono diventare significativi. E’ la sua “terapia esistenziale”, la logoterapia, una scuola che si rivolge a grandi questioni umane come la sofferenza e la morte, e il modo in cui l’individuo si adatta ai limiti inevitabili delle sue possibilità. Il “destino” è quello che sfugge al nostro controllo, ma ciascuno di noi è responsabile di come si rapporta a tali eventi.
Malgrado le crudeltà dei sorveglianti e la costante minaccia di morte, vi era una parte della vita degli internati che restava libera: la mente. Le speranze, l’immaginazione, i pensieri erano soltanto loro, anelando paradossalmente a delle sofferenze propriamente umane, piuttosto che a questioni indegne di un uomo, quali il cibo, il freddo o il pericolo di vita. Frankl sostiene però che l’uomo è “ disposto a patire le fame, purché la fame abbia un senso.” E la morte stessa, è una parte significativa della vita: è proprio l’irripetibilità della nostra esistenza nel mondo, la sua transitorietà, l’irrevocabilità di tutto ciò con cui la riempiamo, o la lasciamo irrealizzata, “è tutto questo a rendere la nostra esistenza carica di significato”. Ciò che noi irradiamo, sarà quello che rimarrà di noi.
