Nell’ottobre del 1503, la Repubblica di Firenze, precisamente nella persona del gonfaloniere Pier Soderini, commissionò a Leonardo da Vinci la realizzazione di un grande affresco che avrebbe dovuto decorare una delle pareti del Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio, la battaglia di Anghiari, in quella opposta sarebbe stato chiamato il ben più giovane ed emergente Michelangelo. La sala era enorme. L’intento era di celebrare la vittoria dei fiorentini sui milanesi,capitanati dall’umbro Niccolò Piccinino, al soldo del ducato di Milano, che aveva mire espansionistiche nell’Italia centrale.
La Battaglia di Anghiari è in assoluto la prima opera sulla guerra come la intendiamo oggi, Leonardo sapeva di dover realizzare un’opera dal forte impatto politico. Si trattava di mostrare il trionfo di una Firenze riflessiva, forte dei suoi diritti e delle sue istituzioni, su un esercito di mercenari brutali e spietati. Il soggetto è assolutamente nuovo, mai proposto prima, e Leonardo decide di utilizzare una tecnica diversa dall’affresco, ma ahimè destinata a rovinarsi immediatamente, una sperimentazione mancata. Perché? Perché l’affresco è un metodo veloce, composto a pezzi e non a velature, la porzione su cui si lavora deve essere terminata prima che si asciughi l’intonaco. Leonardo ha uno stile che chiede più lentezza, preferisce l’olio: purtroppo la strategia fallisce ed abbandona l’impresa. Quello che ne rimane, anche se inestimabile, sono delle copie degli artisti dell’epoca, la più famosa quella di Rubens, dal cartone preparatorio, che fu conservato nel Salone per parecchi anni.
Da queste copie possiamo capire come Leonardo avesse immaginato la scena: da un lato Francesco e Niccolò Piccinino, colti in espressioni di brutalità e violenza, le bocche spalancate in urla animalesche e gli occhi inferociti, dall’altro i fiorentini con un atteggiamento più composto. Leonardo infatti sceglie di rappresentare la feroce battaglia tra i capi degli schieramenti a cavallo per entrare in possesso del vessillo dell’esercito milanese: in mezzo, i cavalli dalle espressioni atterrite. Costretti dai cavalieri a scontrarsi e annientarsi a vicenda incarnano il pensiero di Leonardo, che definisce la guerra una “pazzia bestialissima”, e attraverso gli animali esprime la sua rabbia e l’avversione per la follia degli uomini. Ancora oggi, un grande capolavoro.