Il padrone di casa, Antonio Montinaro, introduce una lectio inaugurale del presidente dell’Accademia della Crusca, Paolo D’Achille che, nel suo italiano sicuro ed efficace, anche ritmicamente (ci mancherebbe, direte voi, ma in realtà non è così scontato), illustra Pasolini linguista. È davvero poco studiato perché – spiega D’Achille – le osservazioni di Pasolini sulla lingua italiana, contenute soprattutto nel saggio Nuove questioni linguistiche (1964), sono quasi tutte sbagliate dal punto di vista tecnico, a cominciare dall’uso errato di alcuni termini essenziali come “diacronia”.
Eppure, conclude D’Achille, “Pasolini ha sempre ragione, anche quando ha torto”. Infatti, in questo suo saggio, come nelle altre osservazioni legate alla lingua, coglie che cosa sta accadendo: la perdita del mondo sacro, legato alle lingue carnali del dialetto, e l’affermarsi di una lingua tecnica neutra che poi denigrerà come “italiano medio” e “koiné”. Prefigurerà perfino il successo dell’inglese come lingua della koiné internazionale. Aveva torto nei particolari ma notava senz’altro qualcosa che stava accadendo e che, nel suo “feroce amore per il popolo”, sosteneva fosse frutto di processi di potere che legavano i defunti fascismi alle società liberali occidentali. Del resto, l’italiano medio che la RAI produceva negli anni ’50 e ’60 era figlio del medesimo tipo di comunicazione che l’EIAR fascista aveva cominciato.
Ho sempre amato Pasolini per il suo senso poetico così denso e artigianale, così “gestuale”, per la sete di cimentarsi con ogni mezzo espressivo, per il suo viscerale sentire popolare. A proposito di lingua, occorrerebbe anche ricordare la sua critica sull’uso di un lessico quotidiano legato a elementi sessuali (le parolacce) come privazione del valore eversivo del sesso nella vita singola e sociale. Difficile dunque non concordare con D’Achille. Tuttavia, la storia della grande omologazione, anche linguistica, e del Potere con la P maiuscola, mi lascia sempre più perplesso con il passare degli anni.
Non c’è dubbio che l’omologazione linguistica e culturale è avvenuta, e poi ha imboccato una scala mondiale infinitamente più ampia con la globalizzazione, ma ciò che non torna nella teorizzazione è il suo determinismo un po’ figlio delle grandi analisi marxiane e marxiste. L’omologazione linguistica e culturale non ha impedito la nascita di grandi autori che hanno fatto evolvere un italiano non dialettale eppure poetico (Sciascia su tutti), di comunità sociali, politiche, religiose piene di significati e valori non globalizzati (se ne trovano alcuni esempi straordinari nei libri di MacIntyre, dai pescatori danesi ai contadini delle Highlands scozzesi), di tanti personaggi che da soli, nel mondo omologato, hanno segnato delle svolte (Madre Teresa su tutti).
Il fatto è che, guardando a ciò che accade quotidianamente a tutti i livelli e in ogni ambito, il Potere è più spesso un “potere” che si scrive con la minuscola e l’omologazione, più che con il grande complotto, si crea perché ciascuno cede un pezzettino di verità per tanti motivi piccoli o minuscoli: per tornaconto, per interesse, per quieto vivere, per paura, per disperazione. Non solo, anche in positivo, la resistenza è spesso affidata al caso, a luoghi, incontri, momenti che capitano fortuitamente e che danno la forza di essere interiormente liberi, cioè di continuare a dire, almeno a sé, la verità, malgrado gli altri, malgrado le condizioni e – spesso – malgrado se stessi.
