Ma non è sempre stato così. Ci sono state epoche in cui la teologia era la regina delle scienze e ci si picchiava o uccideva per una parola piuttosto che un’altra nelle definizioni teologiche, se ne dibatteva nei mercati e nei porti, perché in quelle parole si trattava di valori vitali, di intere concezioni della vita.
Come noto e per buon esempio, la questione di fondo a cui Tommaso risponde è quella della relazione tra ragione e fede. C’è una relazione? E se c’è, quale dovrebbe essere? Siamo irrazionali se crediamo in Dio o siamo irrazionali a non credere? Come ricorda nell’incontro termolese Mons. Palumbo, Tommaso rende reciprocamente necessarie fede e ragione, intendendo quest’ultima secondo la migliore scienza del suo tempo, quella aristotelica. Da qui una storia di secoli che segna la corrente a lungo maggioritaria nel pensiero cattolico: la fede è principalmente questione di conoscenza e non di affezione, etica, volontà, moralità. È il giudizio che trascina la volontà e non viceversa, e quindi non si conosce il vero perché ci si vuol bene, ma ci si vuol bene perché si conosce il vero. Non che Tommaso non sappia che la libertà e la volontà umane sono ferite, contraddittorie, contorte e oscure – è ciò che la tradizione ascrive al peccato originale – ma legge tutto questo nell’orizzonte della relazione che l’essere umano ha con la verità, cioè, nei suoi termini, con la possibilità di conoscere. Abbiamo tanti desideri, spesso contraddittori, ma più forte di tutto è il desiderio del vero, che ci costituisce. Se così non fosse tutta la vicenda di libertà, peccato originale, grazia, travolgerebbe tutta la conoscenza umana come avviene nel percorso intellettuale di Lutero: se salta la primazia della ragione e della verità, salta ogni mediazione intellettuale e culturale.
Sono temi che hanno ancora senso? Sono soluzioni che parlano ancora alla mente e al cuore degli esseri umani? I filosofi nordamericani negli ultimi decenni hanno ripreso Tommaso per il modo di ragionare, analitico, più che per i contenuti. Tuttavia, è proprio quel modo che pare freddo e distante dal nostro modo e dal nostro mondo. I dibattiti su Ai, sui suoi rischi, su che cos’è umano e cosa non lo è in realtà hanno spesso, che uno lo sappia o no, sfondi filosofici e teologici. Quindi non è vero che sono temi desueti. Però paiono tutti poco scientifici. Se i temi teologici possono ancora parlare a tutti – perché sono i grandi temi della vita – occorre trovare una strada che sia consona alla miglior scienza del nostro tempo, in tutta la sua ampiezza. E, forse, prima che nella teologia stessa, il problema sta nella nostra concezione di scienza, che è troppo debitrice alla distinzione ottocentesca tra scienze naturali e umanistiche, hard e soft, matematiche e letterarie. La nostra miglior scienza dovrebbe comprendere invece tutti i campi, descrittivi e normativi, in una varietà di metodi: ogni conoscenza sistematica è sia logica e analitica sia sperimentale e sintetica e, nella mia ricostruzione, è anche suggestiva e vaga. Se ci fosse una summa di teologia ora, dovrebbe cercare di ricoprire tutta questa varietà di metodi e di campi. Ci sono stati tanti tentativi originali e importanti nell’ultimo secolo, con molti approcci innovativi, ma forse mai così ampi e così rispettosi di una scienza intesa originalmente, che vada dall’estetica alla matematica, dalla letteratura alla chimica. Forse, non è più l’opera che può fare un solo autore ma occorrerebbe una squadra.
