Il lavoro del tedesco Uwe Pörken si inquadra con i riferimenti già citati in questa rubrica, come Noam Chomski, David Graeber, George Lakoff e le buonanime di Jacques Derrida e Jonathan Swift, mai lodati abbastanza.
E’ dal 1637, con Descartes, che sappiamo come l’utilizzo delle parole sia innovativo e senza limiti, sempre appropriato alle situazioni ma non causato da queste, cosa importante perché il linguaggio si lega al pensiero in modo univoco. Nel digitale questa considerazione è fondamentale, perché quando proviamo ad usare l’intelligenza artificiale per tradurre o comporre dei testi riusciamo a farlo solo in modo meccanicistico, mai con la completezza di un autore, scrittrice, poeta, men che meno con le loro emozioni. Infatti i nostri migliori robot ed algoritmi sono primordiali se paragonati a come i nostri sistemi di linguaggio, sensorimotorio e concettuale si interfacciano in pochi millisecondi per capire, interpretare, pianificare e passare all’azione comunicando adeguatamente col resto del mondo.
Proprio per queste considerazioni, il digitale è pieno zeppo di “parole di plastica”, vediamone alcune.
Co-living è divertente: tanto a San Francisco quanto a Los Angeles potete pagare $1200/mese per un letto a castello insieme ad altri knowledge worker. Se vi pare eccesivo, tenete conto che cereali, carta igienica e TV sono compresi nel prezzo, così come corsi di meditazione e yoga negli spazi comuni. Potremmo chiamarli “dormitori”, ma chi sarebbe l’imbecille che paga $1200/mese per un letto da dormitorio? In un co-living la cifra pare sensata.
Grassroot è subdola, spesso associata a developer. Letteralmente indica un qualcosa che parte dalle radici dell’erba, dal livello più basilare, e quindi si prende profumo di democrazia perché ogni filo d’erba conta come un altro. Se poi l’execution di un progetto è impossibile perché qui effettivamente parliamo di anarchia e disordine, chi si lamenta passerebbe per antidemocratico o comunque non politicamente corretto.
E cosa dire di ride-sharing, ovvero degli applicativi-aziende come Uber che sembra ti consentano di condividere l’esperienza del trasporto pubblico? Siamo tutti felici di dar 5 stelle di complimenti all’autista, contenti del non dover dare la mancia, incuranti del fatto che porti a casa $9/ora (stipendio da fame), sicuri che per lui questo è solo un gig, un lavoretto per integrare lo stipendio.
La parola di plastica di riferimento è “piattaforma”, che ovviamente non è un oggetto fisico e nemmeno un singolo applicativo, ma un insieme di algoritmi che ti coccolano e sequestrano costringendoti a spendere senza controllo. Il fatto che il padrone della piattaforma più importante guadagni $9 milioni/ora ed abbia appena pagato $38 miliardi per il divorzio dalla moglie ci suggerisce che di democratico e buoni sentimenti ci sia poco, ma chi sarebbe l’imbecille che non vuole il recapito a casa dei propri acquisti entro uno o due giorni? Come non vedere che quei rider di biciclette, che si barcamenano tra traffico e stipendio da fame per portarci la pizza a casa, sono in effetti ben contenti della exposure e dello sharing dell’esperienza con noi?
Teniamo conto che il digitale non si vede, non si tocca, non si sente, sfugge ai nostri sensi. Se già abbiamo problemi con il gioco delle tre campanelle dove vediamo e sentiamo, cosa potrebbe mai andar storto dove ci possiamo solo fidare del prossimo? E se ci spiattella li cinque o sei parole in inglese, sempre le stesse e sempre a condimento di qualsiasi frase, come non credergli?