Allertai chiunque potesse ospitarmi, tra parenti e amici di famiglia e quando arrivai alla Grand Central Station, mi parve un sogno. Tutto era enorme, a cominciare dal cielo.
Dopo aver visto il MET (troppo grande) e il Guggenheim (troppo scosceso) approdai finalmente al MOMA con una certa emozione. Ero lì infatti per vedere le grandi tele di Jackson Pollock, autore del famoso "dripping" che dell’Action Painting era il mio preferito, quando entrai per caso in una sala dedicata a Mark Rothko ed ebbi una sorta di vertigine.
Alle volte si capisce quanto la pittura debba essere vista dal vero: l’aria della sala letteralmente vibrava ed era come se il colore puro dei quadri di Rothko avesse preso possesso dello spazio circostante, come quando il caldo dell’asfalto crea una sorta di rifrazione ottica. Fu l’inizio di un vero amore… rimasi lì a lungo beata, in quel piccolo miraggio.
Quel giorno ebbi però un altro incontro ugualmente significativo con l’opera di un artista che non conoscevo: Edward Hopper, in particolare con l’opera dal titolo "Gas" (1940). Una stazione di benzina come tante se ne vedono in America, una strada vuota e una natura circostante intima e desolata.
Ho molto pensato ad Hopper in questi giorni di solitudine, di strade vuote, di interni che si vedono da fuori, di persone alla finestra. Hopper lo potremo ammirare ques'estate nella grande retrospettiva alla Fondation Beyeler di Basilea, fino al 26 luglio, perché è stata prorogata per via della pandemia. Chissà che non sia meglio compresa, dopo la quarantena.