IL Digitale


Perché AI non ci aiuta?

A cinque mesi dalla comparsa del Coronavirus non abbiamo ancora un vaccino, non abbiamo ben capito se infetta i polmoni o se assale il sistema immunitario che a sua volta infetta gli organi. Non capiamo se le curve dei modelli epidemiologici...

...aiutano o ci costringono a seguirle, non abbiamo una gran voglia di riprendere a viaggiare, consumare, far girare l’economia. Con un bicchiere così vuoto, la mente dei più cerca di dare la colpa a qualsiasi cosa, o altra persona, ritenendosi ovviamente innocente e vittima della sfiga globale del virus. Politici ed AI sono il bersaglio preferito delle lamentele: i primi non sanno decidere, il secondo non sconfigge il virus.

Il bicchiere mezzo pieno è quello della sfida globale al virus. Internet consente ai medici di tutto il mondo di condividere l’analisi del virus, la risposta ai medicinali esistenti, e le diverse ipotesi di utilizzo di molecole che possono fermare questo o quel meccanismo virale. La telemedicina ha anche fatto passi rapidi, sia nella cura del Covid, sia nella gestione di tutte le altre patologie non urgenti che a causa dell’emergenza ospedaliera non possono essere visitate in clinica. L’AI è stato usato ad ampio spettro, dal test di milioni di combinazioni di molecole, al simulare la reazione dei pazienti rispetto a potenziali vaccini. Il più interessante tra questi utilizzi dell’intelligenza artificiale è il MAD, che in inglese significa "matto", ma in questo caso sta per medical automatic diagnosis.

Nel processo di diagnosi il medico fa una serie di domande al paziente, registrate ed usate per allenare l’AI, ma esegue anche una serie di osservazioni e ragionamenti che non si riesce a catturare per poi insegnare al ranocchio digitale. In un bell’articolo pubblicato da UCLA (si trova qui) i ricercatori dell’Università californiana esplorano la possibilità di concentrarsi sulla propensione del paziente a parlare di qualche sintomo specifico. È stato quindi costruito un network neurale (chiamato proprio "propensity based patient simulator", PBPS) che stima la propensione del paziente a concentrarsi su un disturbo particolare.  Questo dato a sua volta guida in modo più preciso le domande da fare. Il PBPS analizza tutti i dati ricavati dalle visite del paziente, ed insegna il motore di AI a chiedere domande più mirate. 

Essendo stupido come un ranocchio ma instancabile, veloce e preciso, l’algoritmo di intelligenza artificiale riesce a paragonare milioni di interazioni medico-paziente ed avvicinarsi con buon grado di approssimazione ad una diagnosi corretta. Il bello di questa tecnica è che minimizza il numero di domande che il computer fa al paziente.  E qui viene il bello nel caso del Covid. Di fronte al numero dei casi da trattare, all’eterogeneità dei sintomi ed alla paura che la gente ha di ammalarsi, alla scarsa disponibilita’ di tamponi e percentuale di falsi positivi, l’AI può dare una mano affidabile nel supporto all’attività diagnostica.

Questa diagnosi è particolarmente importante in ambito lavorativo (non clinico), ovvero sulle tantissime persone che sono completamente asintomatiche o sub-cliniche, e non sanno se mettersi in viaggio e tornare al lavoro. Attraverso il cellulare l’AI può misurare la febbre, l’ossigenazione del sangue, e fare domande mirate per stimare il profilo di rischio della persona. I possibili risultati sono quindi di consentire il viaggio o rientro al lavoro, lo stare a casa per precauzione, o la connessione con il medico per approfondire quello che potrebbe essere un caso Covid. 

Questa scrematura ha due vantaggi importanti: da un lato mitiga il rischio di chi deve andare a lavorare, dall’altro aiuta gli ospedali nell’indirizzare potenziali pazienti di Covid, alleggerendo il carico di lavoro ospedaliero. Messo nel posto giusto, AI fa il suo sporco mestiere.

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