... e finanche raddoppiando il loro spazi, così da accogliere il nuovo culto: quello per l'arte contemporanea. Come le abbazie si sono sviluppate intorno alle reliquie dei santi, così tale culto, del tutto profano, si è propagato attraverso l'esposizione di opere d'arte. Grandi transumanze culturali dei cittadini d'Occidente hanno tessuto pellegrinaggi di cieca devozione da un museo all'altro (almeno fino al Covid).
E non basta. Più incerta diventa l’opera, senza più confini né frontiere, più diventano imponenti i sistemi per raccoglierla, conservarla, promuoverla e, talora, spiegarla. Tra l’occhio dell’osservatore e l’oggetto esposto si frappone un apparato tanto più pesante tanto più ambigua è la natura stessa dell’opera. Oggi come oggi si è deciso di dismettere la vera vocazione dei musei - cioè quella di essere patrimonio e simbolo della cultura di una nazione, oltreché luogo di piacere e insegnamento per tutti - per usarli come aziende. In alcuni casi, i musei hanno affittato i propri spazi come location per pubblicità o ceduto direttamente il proprio brand, chissà dietro quali ricompense, come nel caso del Louvre di Abu Dhabi.
Ricavo queste riflessioni dalla lettura di un libro di Jean Clair, Critica della modernità. Considerazioni sulle Belle Arti, che ho trovato per caso mentre mi aggiravo per la libreria Feltrinelli di piazza Duomo a Milano, aspettando il mio turno per la mostra di Georges de La Tour. Si tratta di un libro del 1983 ma è attualissimo: oggi che non pochi musei rischiano di restare chiusi o di riaprire dimezzati dopo la pandemia da Covid, il pensiero di Clair, così libero e così poco propenso a compromessi, ci aiuta a fare chiarezza su dove stavamo andando e dove vogliamo andare.