Qualche giorno fa ho fatto un salto a Como a trovare una cara amica, Roberta Lietti, gallerista che ora gestisce l’archivio del designer Ico Parisi. In genere quando ci si incontra il tempo scorre veloce e la conversazione è fitta, come si faceva una volta.
Nessuno smartphone viene mai consultato e ci si abbandona al puro piacere di analisi del presente e di quel recente passato che ci riguarda dal punto di vista artistico. Roberta per anni è stata il punto di riferimento della mia generazione di artisti a Como. Ama la pittura tutta, ci ha creduto e tuttora ci crede, è seria e sincera.
Cos’è accaduto negli ultimi vent’anni?
Entrambe constatiamo che per quanto in Italia ci siano tanti e bravi anzi ottimi artisti, solo l’Arte Povera e a sprazzi la Transavanguardia promossa da Achille Bonito Oliva sono riuscite a imporsi all’estero, dopodiché il nulla. Per un artista italiano è durissima. E’ come se a un certo punto sia passata l’idea che per essere un artista di rilievo e quotato, devi fare un certo tipo di passaggi nei musei o nelle fiere cool, tutte che però hanno una traiettoria precisa che riguarda l’asse Londra - New York. Non la si scampa.
Si son inventati una sorta di “patente a punti” ( le regole per dire l’indicibile), una burocrazia dell’arte, che di artistico non ha un bel nulla, se non il nome o il mercato che gli gira intorno. Certo, poi per far finta di essere buoni, danno spazio all’attivismo, ai diritti delle donne, ai diritti dei neri, ai gruppi di emarginati o alla sofferenza della comunità LGBTQ+. Tutti inesorabilmente adepti e pedine del sistema. Dov’è l’universale? Dov’è l’utopia?
Se ci si pensa, gli artisti viventi definiti “grandi” oggi, sono sempre gli stessi, che si sono tutti formati in un’epoca priva di schematismi o coccarde, ribadendo la loro libertà e autarchia, il loro pensiero sul mondo. L’Italia tanto amata ma esterofila da sempre, ha comunque la responsabilità di un eccezionale patrimonio artistico da mantenere e poco ha fatto per il contemporaneo: pochi i musei per esporre l’arte vivente, pochi gli spazi pubblici e privati che la propongono, se non fondazioni come Prada, che però spesso seguono il trend che arriva dall’estero. Dunque che fare? Forse cercare nuove traiettorie e orgogliosamente fare della propria marginalità un punto di partenza.
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