Andare a Fontanellato significa capire quanto di meglio possa dare l’Italia in termini culturali ed estetici e penetrare il segreto di quegli uomini che non si sono limitati a vivere nell’agio della propria condizione, ma hanno dato al mondo passione e conoscenza. Mi asterrò dal parlare della collezione, anche se è fenomenale ed eccentrica, al pari di quella del Cardinal Borromeo (nucleo costitutivo della Pinacoteca Ambrosiana), racconterò invece dell’incredibile labirinto.
Quel dedalo vivo di piante di bambù, alcune alte più di 15 metri, concepito da Ricci e Jorge Luis Borges nel 1977, mi ritorna in mente spesso. Non capita di frequente di entrare in un “vero” labirinto e quello della Masone per giunta è il più grande al mondo. La prima cosa che mi ha colpito è stata una sensazione di piacevole frescura, ma al tempo stesso un certo timore oscuro, arcaico. Il ragazzo alla cassa garantisce che se ci sono problemi c’è un numero di telefono da chiamare. Anche per chi ha un ottimo senso di orientamento, l’attrazione a perdersi è forte e pure io sono in dubbio su a quale dei sensi affidarmi, sento una vertigine. Ragione o sentimento? Si potrebbe definire quasi un’esperienza ancestrale.
Citando Umberto Eco, che firma l’introduzione al libro dedicato ai labirinti (trovato poi nel bookshop), se il labirinto ha una storia millenaria è perché per decine di migliaia di anni l’uomo è stato affascinato da qualcosa che gli parla della condizione umana e cosmica, una sorta di archetipo: esistono infatti infinite situazioni in cui è facile entrare e difficile uscire.“Ed è tipico della vita quello spazio intermedio (magari brevissimo) in cui si vaga senza ben sapere dove si vada e perché, e cosa si incontrerà al centro, o in uno dei suoi imprevedibili snodi.”