Pensieri e pensatori in libertà


Concepimento, potere e parole tra Testori e Giussani

Se qualcuno vuole leggere qualcosa di originale nell’estate torrida, può provare con questo Il senso della nascita (Rizzoli), conversazione tra lo scrittore Giovanni Testori e il sacerdote Luigi Giussani, avvenuta nel 1980 ma con tanti spunti attuali. È un testo breve, che sembra impegnativo ma non lo è troppo, se uno entra nel ritmo di questo dialogo tra due uomini di fede, di cultura e di comuni origini lombarde. 

Non è un dialogo alla pari. Testori, controverso intellettuale di stile anarchico, si è da poco tempo convertito al cattolicesimo e considera Giussani un suo maestro. D’altro canto, Giussani sa che sta parlando a una persona la cui sensibilità profonda e ferita è diventata una voce importante per l’intera cultura italiana, e ne ascolta e commenta – e alle volte corregge – le intuizioni con stima e rispetto estremi.

Il tema di base è nel titolo: il gusto della vita, il senso della cultura, la battaglia per una politica umana si possono originare solo dal senso della nascita, ossia dal sentirsi voluti nel profondo, dall’essere amati, dal percepire che il destino di ciascuno è buono. Ma questa percezione, così comune al sentire cristiano, è commentata dai due autori in modo particolare. Testori, con la carnalità tipica del suo linguaggio, ricorda che il concepimento di ciascuno, proprio nel momento carnale in cui esso avviene, coincide con un momento di “sperdutezza”, dove i genitori per un attimo non sono stati finalmente in completo possesso di sé. C’è un attimo di vortice dell’essere, commenta Giussani, in cui il concepimento diventa la partecipazione dell’ideale, del destino, di Dio alla vita materiale, in cui accade qualcosa di più del rapporto tra due persone. È questo il momento della nascita: il punto in cui la materia è presa da un senso più grande di sé.

Il libro gira intorno a quest’orma ideale che rimane nella vita di ciascuno. Chi l’accoglie e ne fa memoria è inevitabilmente opposto a quello che, pasolinanamente, i due autori chiamo il “potere”, cioè la voluta dimenticanza di questo senso iniziale e dell’umile gratitudine che ne consegue. La dimenticanza crea un mondo ottuso, preso dal vortice del consumo e della tecnica, sempre alienato, sempre arrabbiato. Il potere non ha volto, non si identifica con una persona cattiva, ma con una serie di schemi usati per omologare i percorsi mentali. Qualcuno ci costruisce anche delle ricchezze, ma si è sempre schiavi di una mentalità.

Qui c’è anche la differenza tra i due autori. Testori vede questa situazione come un destino un po’ ineluttabile e ravvisa nei giovani di allora il gioco paradossale del tanto peggio tanto meglio. Visto che sono stati educati in questa dimenticanza che diventa sentimento di inutilità della vita, proprio questi giovani possono essere più sensibili ai momenti improvvisi di bellezza che fanno rinascere la speranza. Giussani non è d’accordo. Questo meccanismo, forse proprio perché tale, gli va stretto. Gli sembra solo che i ragazzi degli anni ’80 siano più veri, meno ideologici di quelli del decennio precedentemente, ma non accetta la lettura sociologica del nichilismo. I ragazzi di allora, e di oggi, non sono né più fortunati né più sfortunati delle generazioni precedenti: la lotta tra la memoria della nascita, dell’essere voluti, e il potere astratto cambia volto nel corso del tempo ma è sempre quella, dal peccato originale in avanti. È solo la forma del potere che è più scaltra oggi o forse, più astratta – e chissà che cosa direbbe dell’era di chagpt! La lotta contro il potere astratto non può essere un’ideologia o una sociologia, e nemmeno una filosofia, tantomeno un’estetica della natura o della vita, ma un incontro con gente viva e sicura nella speranza, le cui parole portano un significato, un modo di vivere. Ricorrendo all’autore lombardo amato da entrambi, viene in mente l’incontro dell’Innominato con la povera Lucia, a cui ripensa nella notte: “Tutt’a un tratto, gli tornarono in mente parole che aveva sentite e risentite, poche ore prima: — Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia! — E non gli tornavan già con quell’accento d’umile preghiera, con cui erano state proferite; ma con un suono pieno d’autorità, e che insieme induceva una lontana speranza”. Testori alla fine cede, in nome della speranza. E vengono in mente tutte le persone, tutti noi, sciabattanti nella calda estate, che in fondo non cerchiamo che una bella speranza, sicura di sé. Magari l’estate sarà l’occasione giusta per trovarla.


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