In questi mesi di pandemia, le tre caffettiere si sono mosse come il gioco delle tre carte accanto ai fuochi, sullo stesso piano, nel fondo neutro della cucina. Ogni tanto le guardavo e pensavo al più grande di tutti: Giorgio Morandi, il poeta delle "cose ordinarie", che chiuso tra le quattro mura dello studio e accudito dall’universo femminile che lo circondava, passa l'intera Seconda Guerra Mondiale.
Un uomo taciturno e discreto che all’amico Cesare Brandi nel '47 chiedeva: "A Venezia la prego vivamente di aiutarmi a non esporre. In questo momento sento vivo il bisogno di un poco di tranquillità per poter pensare alle cose mie". Considerando la mia personale esperienza della Biennale, aveva ragione lui.
Il mio primo incontro con il lavoro di questo immenso artista fu a Parigi in occasione di una grande antologica all’Hotel de La Ville a metà degli anni '80, in una surreale quanto anarchica "gita di Brera". Non è affatto scontato che un pittore dai registri così minimi possa piacere a una giovane che si affaccia alla vita con spirito ribelle. E invece, opera dopo opera di quella indimenticabile mostra, rimasi avvinta dalla potenza di quel silenzio e da quella semplicità taciturna. Lo schivo Morandi mi parlava con voce sommessa, in una lingua piena di pathos, della condizione umana, della fragilità della vita e della bellezza di ogni cosa creata, anche la più umile. Una lezione, la sua, oggi ancora più attuale.