Vita d'artista


Instagram addio?

Sarà perché non ho mai avuto Facebook ma Instagram da subito mi è sembrato interessante. All’inizio mi sentivo come Paperon de’ Paperoni davanti alla sua piscina piena di dollari: avevo la mia dose quotidiana di Mark Rothko, nuove ricette, reperti cinematografici, le teche Rai, le serie tv che...

... ricomparivano dal passato più lontano (sono andata in brodo di giuggiole quando ho rivisto la sigla di “Love Boat”), ma soprattutto tutte le novità sulle mostre nei musei, nelle gallerie, negli spazi espositivi che mi interessano. Oltretutto, senza cercare, molto ti arriva per analogia con i like che metti, quindi meglio di così? C’è qualcuno, anzi più che qualcuno, c’è l’algoritmo, che sceglie per te.

A un certo punto un’amica mi ha fatto capire che per la storia che avevo, non era normale avere così pochi follower… bon, fine dell’Eden. Un problema in più di cui occuparsi: aumentare i follower, inventarmi un brand che mi corrisponda, essere parte attiva su Instagram. Fino a quel momento vivevo in un altro universo, in cui ogni tanto postavo un quadro, una lettura, l’invito di una mostra, vedevo il mio profilo come un archivio e un work in progress. Ho iniziato a guardare qualche altro account e mi sono resa conto che il problema è più serio di quanto pensassi e riverbera in varie direzioni: di tipo filosofico, estetico e anche teorico. Un artista non deve per forza saper comunicare, anzi, e per quanto intrigante, alla fine ho deciso che non mi interessa finire nelle maglie apparentemente larghe ma in realtà molto strette, di una sequenza numerica.

Nel mentre però ho scoperto un mondo: intanto perché Instagram sembra viva in un eterno presente, in cui il passato e il futuro coesistono senza sviluppo né storia. Per avervi successo, la propria vita, come quella di chi ti sta vicino, non può che venire offerta come merce di scambio, ovviamente nella versione felice e luminosa, quella senza ombre. Ho capito infatti che per essere “seguiti”, ogni tuo momento deve essere sempre visibile a tutti, quasi iper-visibile e dunque “osceno”. Calpestando la propria intimità, in una sorta di coazione dell’apparire, si diventa quote di un nuovo mercato.

Pensando di fare bene si finisce invece in un gioco delle vanità un cui si è spinti continuamente a destare sorpresa, pena l’indifferenza: allora è chiaro che alla ricerca di consenso non si possa che scivolare verso il banale o il luogo comune, naturalmente “in positivo”. Ciò che viene richiesto è di sacrificare la propria unicità, il proprio pensiero, in nome di quello che un tempo veniva definita “audience” in un presente senza tempo e sempre luminoso. Il rischio di perdersi è molto serio, perché la vita, il nostro bene più prezioso, si spossessa di sé, immolandosi al gioco virtuale della "second life", in cui il primo attore non sei più tu ma l’algoritmo. Una forma culturale, che sotto l'apparente accessibilità alla conoscenza , si può rivelare tra le più insidiose e pervasive del nostro tempo.

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In questo numero hanno scritto:

Alessandro Cesare Frontoni (Piacenza): 20something years-old, aspirante poeta, in fuga da una realtà troppo spesso pop
Angela Maria Borello (Torino): direttrice didattica scuola per l’infanzia, curiosa di bambini
Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
Roberto Dolci (Boston): imprenditore digitale, follower di Seneca ed Ulisse, tifoso del Toro
Giovanni Maddalena (Termoli): filosofo del pragmatismo, della comunicazioni, delle libertà. E, ovviamente, granata
Barbara Nahmad (Milano): pittrice e docente all'Accademia di Brera. Una vera milanese di origini sefardite
Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro