Da quale universo è arrivata? Se poi la scrittura non è giornalistica o saggistica, sono le forme viventi, spesso i personaggi, che la costituiscono. Anche i personaggi arrivano alla nostra mente da qualche parte. E dalla mente vogliono prendere sangue e corpo, vogliono incarnarsi in qualche modo, nelle parole, nei segni grafici, sul foglio di carta o elettronico. Si scrive qualcosa di narrativo, dove ci vogliono dei personaggi, perché ci sono problemi che non hanno la qualità dell’informazione e del commento propri del giornalismo, né l’essenza inferenziale di un trattato o di un saggio. Ci sono problemi che non sono ancora chiari, o che non lo saranno mai, e che pure vogliono esplodere di vita e in una vita. Per questo si formano le narrazioni. György Lukacs, il grande estetologo e marxista eterodosso, nella sua Teoria del romanzo aveva messo in relazione i generi letterari con le epoche della storia, per dire che ogni epoca ha il suo tono e il suo genere di problematica, di enigma essenziale.
Scrivendo dei piccoli di dialoghi, che ora trovate qui (Dialoghetti di uomini e di dei, Rubbettino editore) e in tutte le librerie fisiche e virtuali, mi sono così accorto che, senza volerli imitare, e senza “averli in mente” né minimamente paragonarmi a precedenti tanto assoluti, stavo ripercorrendo la strada di Leopardi e di Pavese nelle Operette morali e nei Dialoghi con Leucò. Non sono dialoghi filosofici, quelli alla Platone, perché in essi non è in questione principalmente il ragionamento. Ciò che è a tema sono modi incarnati di vivere dei concetti, e per questo in essi contano soprattutto i personaggi e il loro sviluppo interiore. Forse, è questa la cifra dell’epoca che abbiamo ereditato dai giorni di Leopardi e che ci mette all’interno della stessa era: l’urgenza di vedere i concetti universali e i valori trascendentali (la giustizia, la verità, la bellezza) incarnati in una storia, spesso non a caso fatta di dei e di uomini.
Perché l’era moderna, dall’illuminismo di allora al moralismo woke di oggi, non ha il problema del riconoscimento oggettivo o razionale del vero o del valore, ma quello della percezione del suo svuotarsi, del suo non essere rilevante o efficace e, allo stesso tempo, del bisogno che torni a esserlo. Come mai questa debolezza e questa necessità di solidità convivano è una buona domanda: forse è perché la razionalità occidentale nella sua filosofia e nelle sue scienze ha sempre coperto soprattutto il lato analitico-concettuale delle questioni, lasciandoci spesso insoddisfatti rispetto alla razionalità del loro accadere in “gesti”, cioè in azioni piene di significati.
I dialoghetti – come li chiamo io – sono la forma per vedere uno spaccato di questi gesti, di una razionalità forte anche se non analitica, di significati che si muovono, agiscono e si spiegano. Non so se in questo caso i personaggi, qualunque sia la loro provenienza, saranno riusciti a esprimersi adeguatamente, ma certamente hanno provato a risolvere in azione i grandi enigmi che stanno al cuore della vita di tutti.