Indugiando sulla storia del processo agli untori della peste del 1630, mal costruito e peggio eseguito, con torture, false immunità, delazioni suggerite e imposte, Manzoni si interroga sulla meccanica e la dinamica della catastrofe di tante vite perdute per niente. Come è possibile che sia successo? Delle persone sono morte senza che nemmeno potesse esistere la possibilità del reato (per chi non ne fosse informato, la peste non si può ungere). Eppure sono stati i notabili di un Paese, dei giudici professionisti, a portare avanti la storia – più infame della colonna che voleva celebrarla – in nome di un popolo diventato folla cieca.
Qui però il tema non è quello della folla che non ragiona. E non è nemmeno quello dell’iniquità dei tempi. Che, anzi, Manzoni se la prende in lungo e in largo con il celebre filosofo illuminista Pietro Verri che, pur avendo scritto dell’ingiustizia del processo, ne attribuiva la colpa all’uso della tortura, che egli voleva combattere ed eliminare. Manzoni, però, è molto più profondo di una lotta, pur giusta, di carattere politico e lo dimostra in almeno due aspetti.
Il primo aspetto è che le catastrofi non sono mai il risultato del grande complotto ma la somma dei piccoli cedimenti di ciascuno di fronte al vero. Ciascuno, per motivi diversi, accetta o compie una piccola dimenticanza, una modesta eccezione alla regola, una meschina insinuazione, una svista secondaria. Come nella bella serie televisiva su Chernobyl o nel film La zona d’interesse sul campo di sterminio di Auschwitz, la grande ideologia non si serve dei grandi tradimenti ma dei piccoli opportunismi. L’ideologia piega ciascuno solo un pochettino, ma è quanto basta per provocare morte, dolore e sofferenza.
Il secondo aspetto, molto manzoniano e connesso al primo, è che non esiste nessuna condizione che renda del tutto impossibile l’essere buoni e, di conseguenza, l’esser felici. Come la monaca di Monza avrebbe ancora potuto essere una buona monaca ed essere felice anche in una vocazione coatta, persino nelle torture di un processo ideologico e ingiusto, si poteva rimanere attaccati al vero. È quello che Manzoni chiama il martirio, in nome della verità, di Gaspare, giovane figlio di uno dei due condannati principali, che pur accusato ingiustamente non volle accusare nessuno a torto. “Ne’ tormenti, in faccia alla morte, le sue parole furon tutte meglio che da uom forte; furon da martire”.
Continuare a dire il vero, non smettere mai di cercarlo, non presumere mai di esaurirlo, non calunniare, non diffamare, avere il coraggio di sospendere il giudizio piuttosto che affrettarlo, sarebbero le caratteristiche della nostra cultura occidentale così radicata nella cultura dell’evidenza greca e della luce evangelica del Vangelo di Giovanni. Non dimenticarselo significa non partecipare alle tante colonne infami, piccole grandi, della vita di ciascuno.