L’operazione di Chandler è dettata da motivi estetici (oltre che da quelli economici dell’editore): Grossman scriveva bene anche quando era convinto del comunismo e si sforzava di stare dentro le linee ideologiche dello stalinismo. Già con l’edizione della prima parte di Vita e destino, denominata da Chandler Stalingrad, e così tradotta in italiano, lo schema chandleriano funzionava solo alcune volte. In altri punti, a cedere era proprio la scrittura, piegata al fornire le risposte di regime a tutte le domande umane, da quelle sulle sorti della guerra a quelle sul senso della vita.
Nel caso del Popolo immortale i valori si sovvertono: ogni tanto ci sono sprazzi di scrittura o di osservazioni interessanti in una storia di guerra banale, intessuta delle preoccupazioni di regime. Non poteva altrimenti. A sua discolpa, Grossman scrive questo romanzo nel giugno del 1942, in una pausa delle sue attività di giornalista presso l’esercito. I russi a quel punto hanno congelato il fronte, ma la battaglia di Stalingrado – di cui Grossman stesso sarà protagonista – è ancora di là da venire e i tedeschi occupano buona parte del suolo sovietico. Lo scrittore cerca dunque di infondere coraggio con un romanzo che esalti la possibilità di vittoria, basata sulla fede comunista, sull’eroismo di ogni singolo soldato e sulla grandezza in ogni senso della Madre Russia. Nel racconto di una piccola vittoria dell’anno prima, in Ucraina, dove un battaglione isolato era riuscito a rompere l’accerchiamento tedesco e unirsi al reggimento che per qualche ora aveva rallentato l’avanzata tedesca, Grossman profetizza la vittoria sui nazisti. La storia però è banale ed è grossolana: gli eroi sono un commissario politico e un operaio-soldato che fanno sempre tutto giusto ricordando a tutti doveri e compiti. Le reprimende del commissario fanno mutare le persone nel giro di pochi minuti, trasformando vili in eroi; il legame Marx/Lenin (al posto di Dio)-patria-famiglia è l’origine della forza e coincide con la verità; i tedeschi sono sempre solo figurine di cattivi, che non sono degni nemmeno di avere un nome proprio. Insomma, trama e personaggi sono scontati.
Poi, certo, Grossman ha dei guizzi brillanti. Il primo nella partecipazione della natura alla battaglia. Quando i soldati attendono di attaccare sentono sotto di sé l’intera vita del bosco, con i suoi insetti, le foglie decomposte, le bacche seccate. Oppure, in un momento di attacco, i lanciarazzi tedeschi illuminano la foresta e “i tronchi di quercia emersero dalle tenebre, come se l’intera foresta si fosse fatta avanti e adesso stesse lì, immobile, sotto la luce tremolante”. Nell’amore alla natura Grossman è se stesso così come lo è quando dice, che “nei giorni difficili la gente ha bisogno solo della verità, per quanto difficile e dura possa essere”, una frase che ripeterà molte volte anche quando essa assumerà il valore di critica verso il regime. Infine, Grossman è se stesso nel ritenere il momento della scoperta creativa – in questo caso in campo militare – come “un pensiero puro e semplice, inaspettatamente venuto da chissà dove, che disperde ogni confusione e complessità facendo accedere alla sola, semplice, irrefutabile soluzione”. Il senso di scoperta per la verità e il destino, per quanto dolorosi, sarà il nerbo di Vita e destino e Tutto scorre, mentre qui è un fugace momento dentro un impianto ideologico che è ostile proprio alla creatività e alla verità. Valeva la pena tradurlo? Forse sì, come documento storico della fase prima del grande cambiamento dell’autore, per la completezza della sua conoscenza nel mondo occidentale, ma basta allora in lingua inglese.