Pensieri e pensatori in libertà


Bill Congdon e il gesto pittorico

C’è una bella mostra d’arte in Molise. È sparsa un po’ tra Venafro, Campobasso e Civitacampomarano. La mostra, intitolata “La pace non è anch’essa un’emergenza?”, ripercorre il legame tra William Congdon, pittore americano nato in Rhode Island ed educato in Connecticut, e l’Italia, in particolare il Molise. William (Bill) Congdon (1912-1998) non è ancora conosciuto quanto meriterebbe, ma lo sarà presto e giustamente perché è un rappresentante emblematico del percorso artistico e filosofico del ‘900. 

Fa parte della generazione americana che si stringe intorno a Peggy Guggenheim, che di lui dirà che era uno dei pochi ad aver capito Venezia, dove la regina dell’arte post-bellica viveva. Era stato in Italia come ambulanziere durante la guerra, nella tragica battaglia di Montecassino, ma poi vi era ritornato, con i quaccheri, subito dopo la guerra, per aiutare la ricostruzione. Ed era tornato così in Molise, luogo amenissimo per chi ha gusti di umanità e colori fuori dal mainstream. E per continuare poi la vita fuori dal mainstream, qualche anno dopo (1959), si era convertito al cattolicesimo, stavolta ad Assisi, la città pervasa ancora dalla luce di Francesco. Morirà in Lombardia, in una casetta adiacente al monastero benedettino della Cascinazza, rimanendo un laico, secondo il carisma dei Memores Domini.

Strana vita ma poetica pura del Novecento. La mostra, soprattutto nei quadri di Venafro, presenta alcuni quadri che testimoniano l’importanza dell’autore, per due aspetti tipicamente novecenteschi.

Il primo è il seguire Cézanne nella ricerca dell’essenziale, della forma al di sotto della materia. I quadri del primo periodo, dedicato alle città, sono in questo senso splendidi. Guardate il quadro su Venezia e capirete che aveva ragione Peggy: Venezia è soprattutto inclinata. O guardate il Colosseo: una vertiginosa verticale che apre un fondo nero: è un girone infernale da rappresentazione dantesca. È un cammino di forme, quello di Bill Congdon, nel tentativo di capire i nostri luoghi, le città. Poi lo stesso cammino ha una fase tarda, fatta della stessa ricerca, ma più spirituale, più profonda, meno ansiosa, nei paesaggi fermi della Bassa lombarda. Se prendete un paesaggio della Bassa, con i suoi campi e le sue brume, sarete molto vicini alla più astratta delle ricerche formali. Congdon lo intuisce e lo capisce: nulla è così realista come l’arte astratta, quando la si intende.

C’è anche un secondo aspetto che fa sì che Congdon ben rappresenti le istanze del Novecento: il ricercare il significato nella materia pittorica, sulla scorta di Van Gogh, di Gaugin, del Matisse dei gouaches. Come Pollock, Congdon vuole che la pittura sia “gesto”, cioè che sia azione e che il significato scaturisca dalla fatica del processo dell’azione. Il colore è esploso sulla tela e poi via via più scavato, più sofferto, più composto di pieni e vuoti, che sia olio o pastello.

È così, nella fatica del gesto, che - come dice la filosofia omonima - è un modo sintetico di ragionare, emergono i significati di una vita, quello “che io sono” diceva lo stesso Congdon in una celebre intervista a Red Ronnie degli anni ‘90: che siano città o campi, le luci della vita nascono nel dolore, nella fatica, nella terra, nel cupo delle montagne o delle battaglie. È sempre un po’ la vita dentro una morte quella Congdon celebra, facendo intravedere una gloria eterna dentro l’orrore della guerra o delle nostre città.

Una giovane studentessa universitaria, mentre guarda la mostra, osserva: forse gli è rimasta per sempre la ferita e l’orrore della guerra vista tra Lazio e Molise. Forse è così: di certo, questo è il suo inizio come quello della civiltà occidentale del secondo Novecento, di cui Congdon è significativo emblema.


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