Pensieri e pensatori in libertà


Berlusconi comunicatore

Adesso che i fuochi di amore e odio si sono smorzati – a ciglia asciutte, come diceva Montanelli – possiamo forse occuparci di qualcosa di più specifico a riguardo di Silvio Berlusconi come comunicatore.

Berlusconi incarnava le prime due regole della comunicazione alla perfezione: 1) credere a ciò che si dice; 2) pensare la comunicazione sul ricevente e non sul mittente. Inoltre, 3) è stato il protagonista di un cambio tecnico di stagione comunicativa in politica, che cercherò di spiegare, al di là di ogni giudizio di merito.

Cominciamo dalla prima. Credere a ciò che si dice. La virtù somma del comunicatore è credere a quanto si sta dicendo, qualunque cosa sia. Ci sono miriadi di pubblicazioni su questo tema, che fanno vedere come la nostra epoca consideri come vincente il paradigma della sincerità su quello argomentativo. Non importa se si argomenta bene, o se ciò che si dice oggi è contraddittorio con ciò che si diceva ieri, ma importa che tutto sia avvertito come spontaneo, come rispondente a un’autenticità di fondo della persona. Normalmente lo si dice in negativo, come perdita di ragionevolezza e decadenza dei tempi, ma in realtà il credere a ciò che si dice è stato sempre al centro della comunicazione. In fondo, significa rimanere fedeli a un’intuizione di fondo, a un’idea o un ideale. I riceventi fissano quest’identità più dei singoli passaggi, più della coerenza personale, più della consequenzialità logica. È una virtù propria dei grandi comunicatori, spesso dei leader assoluti di ogni parte ed epoca, ed è quella che fa scattare tutti i meccanismi di sostituzione, sublimazione, conformazione al leader studiati dalla psicologia del Novecento. Ma non è solo questione di politica: lo stesso si può dire di poeti, santi, cantanti, professori ed educatori.

La seconda regola, la preminenza del ricevente, è bene espressa dall’aneddoto di Berlusconi che ricorda agli autori di Canale 5 che parte del pubblico “ha la seconda media (e non la terza), e non era neanche tra i primi della classe”. La comunicazione va pensata su chi la riceve. Ora si chiama “targetizzazione” ma è lo stesso concetto: bisogna calibrare la comunicazione su chi la vede o ascolta e non sulle proprie intenzioni. Se poi questo serva o debba servire a introdurre a piani diversi, nuovi, più alti di quelli da cui si parte o faccia rimanere dove si è, è un discorso educativo, che era molto presente nella Rai anni ’60 e poco in quella della fine degli anni ’70 e in Canale 5 degli anni ’80, ma la partenza è decisiva dal punto di vista comunicativo.

Infine, il cambiamento di era comunicativa in politica. Ci si trovava in un’era simbolica, fatta di discorsi complessi. Berlusconi ha inaugurato in Italia l’era indicale: foto e nome, e basta. Poi solo nome, conficcato nel logo di partito. Tutti lo hanno seguito, a destra e a sinistra, e anche Beppe Grillo prima maniera. Forse Berlusconi seguiva uno spirito dei tempi, più che essere un creatore. Ma di certo è stato un grande utilizzatore dell’importanza e del senso di appartenenza generato da certi tipi di segno, che tecnicamente si chiamano indici: loghi, inni, magliette, e soprattutto “comunicazione per inondazione”. Il termine era applicato a Ronald Reagan, il primo presidente statunitense a mettere un ufficio comunicazione alla Casa Bianca (ovviamente mai dismesso dai successori). Il mantra di Reagan era di metterlo sempre in prima pagina, non importa per cosa, basta che ci fossero foto e nome. In semiotica si chiamano indici, segni che servono a fissare l’oggetto e l’appartenenza a esso. Non so se con studi teorici alla base, ma Berlusconi ha fatto lo stesso. La sinistra lo ha aiutato non parlando d’altro e d’altri per vent’anni. A dimostrazione dell’incomprensione perenne e radicale, alcuni esponenti sono riusciti a trasformare nell’ennesimo trionfo comunicativo berlusconiano anche il lutto nazionale. Certo, si fa per riceverne a propria volta visibilità, ma è come quella della luna dal sole.

L’era indicale della comunicazione politica è già tramontata da un po’ di tempo. Da Trump, e dal secondo Grillo in Italia, la comunicazione politica è entrata in un’era iconica: immagini al rallentatore, emozioni in pubblico, tribù di appartenenza, come quelle dei social, più che singoli leader. Stiamo andando verso il peggio? Ogni era ha i suoi vantaggi e svantaggi. L’era simbolica dei discorsi iper-complessi che tanto si rimpiange era anche alla base degli anni di piombo, e per paradosso fra poco rimpiangeremo il leader unico. L’impressione è che, come sempre, il passato sembri sempre migliore e che ciò sia un modo per fuggire sempre alle decisioni e alle responsabilità del presente.

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Angela Maria Borello (Torino): direttrice didattica scuola per l’infanzia, curiosa di bambini
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Barbara Nahmad (Milano): pittrice e docente all'Accademia di Brera. Una vera milanese di origini sefardite
Giovanni Maddalena (Termoli): filosofo del pragmatismo, della comunicazioni, delle libertà. E, ovviamente, granata
Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro