Pensieri e pensatori in libertà


Manzoni e il realismo popolare

Questa settimana è caduto l’anniversario dei 150 anni dalla morte di Manzoni, giustamente ricordato, anche se non sempre per i motivi giusti e alle volte con una retorica noiosa e intollerabile. Per me, Manzoni è legato alla lettura che ne feci, molti anni dopo le scuole, mentre mi trovavo per la prima volta negli Stati Uniti.

Avevo letto I promessi sposi con gusto, ma senza passione, al ginnasio. Poi l’avevo letto con profondità ma solo parzialmente al liceo, sotto la guida del prof. Caldi, uno dei migliori italianisti che abbia mai conosciuto. Ma poi lo lessi davvero, con passione e testa, quando lo trovai, in italiano, nello studio di Max Fisch, il grande studioso di Peirce e traduttore di Vico dall’italiano in inglese. Dopo mesi senza mai parlare italiano, se non nelle rare telefonate, mi buttai sui I promessi sposi e capii quanto e come sia un libro di bellezza assoluta, uno di quelli che fanno “ridere e piangere insieme” letteralmente, anche quando si è da soli, e quanto la nostra lingua, che Manzoni esalta e migliora, sia intrisa di significati profondi e delicati, legati al bel cielo di Lombardia dell’800 ma universali e perenni nel loro richiamo, anche sotto il cielo vastissimo della deepest and darkest Indiana.

Manzoni guida al realismo vero, quello popolare, fatto di umanità vissuta e senso religioso. Per Manzoni, a cominciare dalla cruda notte dell’Innominato toccato dalle parole di Lucia, l’essere umano è se stesso quando spinge la ragione a porre domande totalizzanti sul senso della vita e trova pace, come nel famoso motto di Agostino, solo nella relazione con Dio, sentito almeno come ipotesi. Allo stesso tempo, Manzoni sa che questa vertiginosa posizione umana non sarebbe vivibile se non fosse la partecipazione alla festa di un popolo, quello che si reca gioioso dal cardinale, e che, infine, il frutto e la verifica della fede non è un ritorno al senso religioso, al porsi domande inquiete, alla tragica suggestione del suicidio. Il cattolicesimo vissuto fa sì che le domande diventino preghiera umile e lieta, che l’energia d’azione diventi carità, che il senso di giustizia diventi perdono. È la grande parabola narrativa dell’Innominato, ma è anche quella di Renzo, il protagonista assoluto del cambiamento, accompagnato dalla dolce fortezza di Lucia.

Il mondo è molto cambiato da allora, ma il realismo manzoniano con la sua apertura metafisica e la sua operosità carnale rimane una possibilità di vita universale e popolare, incastonato per sempre negli sguardi affamati e struggenti alla polenta della famiglia di Tonio, nella comica salita di don Abbondio al castello dell’Innominato, nella precisa descrizione della superficialità della massa e dell’intellighenzia in epoca di peste e, più che in ogni altro luogo, nel commovente scender dalla soglia della madre di Cecilia, uno dei brani più poetici dell’intera nostra letteratura.

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In questo numero hanno scritto:

Alessandro Cesare Frontoni (Piacenza): 20something years-old, aspirante poeta, in fuga da una realtà troppo spesso pop
Angela Maria Borello (Torino): direttrice didattica scuola per l’infanzia, curiosa di bambini
Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
Roberto Dolci (Boston): imprenditore digitale, follower di Seneca ed Ulisse, tifoso del Toro
Giovanni Maddalena (Termoli): filosofo del pragmatismo, della comunicazioni, delle libertà. E, ovviamente, granata
Barbara Nahmad (Milano): pittrice e docente all'Accademia di Brera. Una vera milanese di origini sefardite
Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro