Certo, può capitare in quel di Breganze, pedemontana vicentina, a casa di Firmino e Franca Miotti. Qui si va oltre il Torcolato, un passito cui un’intera comunità dedica una festa apposita, la terza domenica di gennaio, in occasione della prima torchiatura di grappoli messi a maturare dopo la vendemmia nelle cantine di famiglia.
Una storia che parte da lontano, quella di casa Miotti, che ha spiccato il volo quando, negli anni sessanta, il giovane Firmino decise di dare una svolta alla tradizione di famiglia che vedeva trasportare le botti agli osti e alle famiglie dei dintorni su carri trainati da pii bovi. Iniziò a imbottigliare la spremitura di vitigni antichi che recitavano di Gruajo, Pedevenda, Sampagna. Ultime resistenze autoctone all’invasione di cabernet e chardonnay.
Firmino che, negli anni del boom economico, sapeva industriarsi nella diversificazione rurale. Apprezzato norcino nelle aie del vicinato, dove vigeva ancora il rito laico della mattanza suina. Come insaccava i salami Firmino non ce n’era per nessuno tanto è vero che, per lustri, il nostro ha continuato a sbancare quei concorsi che si svolgevano nelle osterie di resistenza umana quando, nelle brume invernali, organizzavano quei piccoli concorsi tra amici per il miglior salame artigianale. Se non vinceva lui la medaglia virtuale se la vedeva assegnata “la Pina”, moglie e complice di vigna e di cantina.
Cantina Miotti che, nel frattempo, era diventata il centro di gravità permanente di un variegato mondo che qui trovava la semplicità e la schiettezza di quella civiltà rurale di cui i MIotti erano ambasciatori resistenti. Grazie anche alla complicità dell’amico libraio Virgilio Scapin, un cittadino di Vicenza con il richiamo della campagna, a Breganze salivano periodicamente Pietro Germi, regista di film che hanno fatto l’epoca, girati nei dintorni, quali “Il commissario Pepe” o “Signore e signori”, ma anche scrittori ed editori dal gusto raffinato, quali Neri Pozza o, ancora, uno dei maestri della moderna grafica, il belga Jean Michel Folon.
E’ stato proprio da queste atmosfere che Scapin ha tratto ispirazione per il suo libro più famoso: “I Magnasoete”, ovvero i mangiacivette. Una storia emblematica retaggio della povertà dei tempi di guerra che gli aveva raccontato l’amico Firmino, di quando cioè si cercavano le civette, di notte, tra gli alberi, perché la dispensa era vuota. Pudori nascosti, resi testimonianza di un’epoca. Con Firmino avrebbe voluto girare un film Ermanno Olmi, se lo avesse conosciuto prima de “L’albero degli zoccoli”. Non sono mancati gli sportivi, compresi gli arbitri Aurelio Angonese e Gigi Agnolin. Una comunità che forse ha ben tratteggiato un giovane Oliviero Beha, definendola “Firminopoli”.
Il passaggio di questi protagonisti del novecento impresso a futura memoria in un memorabile libro degli ospiti che, ancora adesso, il patriarca e la figlia e degna erede Franca mostrano all’amico o al cliente curioso che, nel tempo, ha riconosciuto come il brand Miotti sia una garanzia di storia e qualità applicata alla vigna.
Con Franca il tappo sull’etichetta ha cambiato passo e, accanto alla produzione storica, si è affiancata una linea che, pur in sintonia con il mercato, ad esempio con la selezione di uvaggi quali il rosso valletta o il bianco colombare, mantiene la qualità senza se e senza ma. Una storia, quella della famiglia Miotti, che ha saputo rendersi protagonista anche oltre l’etichetta, ad esempio con il volto iconico di Firmino testimone di svariate campagne pubblicitarie, o i concerti tra le botti della figlia Maria Cleofe, così come Franca è oramai una delle più dinamiche donne del vino a livello nazionale.
Testimonianze diverse, nel corso del tempo, ma emblematiche di come si possano conciliare tradizione e qualità, fedeli al passato, proiettati nel futuro.