Allievo del colossale Stanislavskij, dal cui operato artistico prende presto le distanze, Vsevolod Ėmil'evič Mejerchol'd (1874-1940) è padre ideatore della biomeccanica, una pratica di training attoriale finalizzata alla gestione della corporeità. Al centro dell’attenzione del regista e pedagogo si trova il bios del performer, la “vita”, una vita intesa non solo come corredo emotivo dell’uomo, ma come insieme organico di mente e corpo. Nonostante la frattura con il maestro, divorzio che si consuma in primo luogo nel rifiuto del naturalismo, Mejerchol’d, nella valorizzazione del corpo attoriale a discapito della parola, recupera e rielabora proprio gli insegnamenti dell’ultimo Stanislavskij, lo Stanislavskij cosiddetto “delle azioni fisiche”. Occorre, infatti, evitare di ridurre la teorizzazione teatrale di Stanislavskij al mero studio della dimensione psicologica del personaggio, solo secondariamente destinata a una traduzione materiale. L’ultima stagione del pensiero del maestro inverte i rapporti di influenza tra sentire e agire, riconoscendo al secondo momento il motore per la nascita del primo.
È, dunque, da questo punto che si muove Mejerchol’d, tracciando le linee di costruzione di un teatro che risente delle trasformazioni sociali e politiche della Russia di inizio secolo e che rielabora le emergenti istanze delle Avanguardie Storiche. Dal sapore squisitamente futurista è l’esaltazione della meccanicizzazione del corpo dell’attore, strumento della ricerca non di verosimiglianza, bensì di essenzialità. L’attore di Mejerchol’d è plasmato, inoltre, in chiave taylorista e produttivista: l’attore è un operaio che agisce sul proprio corpo come sul prodotto del proprio lavoro industriale. Come nella catena di montaggio, scardina, scompone e ricompone una fisicità e un movimento che risultano privati di sovrastrutture imitative, ma che sono ricondotti a gesti economici, pura energia cinetica. Il processo di meccanicizzazione del moto e di rieducazione del corpo, che annulla la dimensione narrativa e drammaturgica, è agevolato dall’utilizzo di una scenografia che, anch’essa lungi dal rappresentare il vero, si compone di praticabili, impalcature e percorsi che forniscono agli attori gli strumenti attraverso i quali scandire i tempi e la struttura della performance.
Altro aspetto meritevole di menzione è il ruolo politico del teatro di Mejerchol’d. La distanza con Stanislavskij si presenta anche sul piano politico. Se, infatti, il teatro del maestro rimane neutrale alle istanze rivoluzionarie, quello di Mejerchol’d si caratterizza come strumento attivo di trasformazione politica e sociale. L’attore operaio è il portavoce del nuovo mondo comunista, è simbolo di una cultura non più appannaggio di pochi, ma divenuta mezzo condiviso per la creazione della nuova classe del proletariato. Mejerchol’d si fa promotore di un Ottobre teatrale, di una nuova linea di estetica performativa che trasporta il teatro oltre la dimensione della tradizione, negli ambienti di una vita quotidiana e collettiva che deve essere ricostruita alla luce della Rivoluzione.