... probabile corruzione del figlio poco furbo di Biden, Facebook e Twitter hanno provato a censurarne la diffusione raccontandoci dei loro alti principi di salvaguardia della verità e battaglia contro le fake news. Apriti cielo: i navigatori della rete si sono ingegnati per aggirare la censura, i politici hanno attaccato a testa bassa, i pochi giornali rimasti (pro-Biden) si son trovati nell’imbarazzante posizione di dover spiegare fatti e misfatti.
Le grandi multinazionali digitali californiane, che fino a 4-5 anni fa si vantavano di mantenere un dialogo aperto coi dipendenti ed assoluta libertà di parola nei propri open space new age, ora sono votate all’oppressione di qualsiasi idea che possa infrangere il politically correct. Non solo sono bandite le parolacce, ma anche parole come vecchio, giovane, bianco, nero, mettono a rischio di licenziamento per discriminazione. Se poi uno esprime vago supporto per il partito sbagliato, fuori subito.
E 'sti CEO a raccontarci di quanto sono bravi i loro robot di intelligenza artificiale per eliminare le fake news. YouTube ha eliminato 200 milioni di post fuorivianti sul Covid. In tre anni Facebook è passata dalla rimozione di centomila a 20 milioni di post che reputa censurabili. Ci dobbiamo fidare? E’ lecito dubitare? Se il Lancet è stato beccato a pubblicare una bufala sull’idrossiclorochina, come potremmo (non) dubitare di Google che ci impedisce di leggere dei casi in cui funziona?
Hunter Biden a 44 anni si ritrova nel board di un azienda ucraina, senza conoscer la lingua, l’industria, il business, ma con stipendio milionario. Chi è il fulmine di guerra che l’ha assunto in quella posizione? Possiamo dubitare che avere il papà vice presidente alla Casa Bianca abbia influito? Se ascoltiamo Biden, Zucki e compagnia, facciamo peccato solo a pensarlo. E come insegnò Andreotti, si fa peccato a pensar male, ma spesso ci si azzecca.
Zucki insiste da anni nel dire che i suoi censori non sono dipendenti dell’azienda, ma contractor (lo stesso termine che in inglese usiamo per mercenari), ed ora ci dice che i suoi nuovi robot intelligenti sono oggettivi e privi di inclinazioni politiche, morali, religiose: che possiamo fidarci. Occhio, son gli stessi robot cui devi insegnare per mesi solo per fargli riconoscere una bottiglia di vino da una di latte, che non possono capire il contesto come invece fa la nostra mente, che non sanno fare analogie o metafore. E noi dovremmo fidarci dei suoi robot nell’individuare le fake news? Gli stessi robot i cui algoritmi sono scritti da bianchi giovani americani con la felpa e magicamente privi di qualsiasi bias cognitivo?
Se nelle quattro puntate precedenti ho rivolto un modesto invito a staccarsi dallo schermo per rinfrescare e tener lucida la nostra mente, in questo e nei prossimi invito all’attenzione in quello che si posta, cui si fa like o share. Tutto quello che va su internet, resta su internet: il primo comandamento per muoversi agevolmente sulla rete senza farsi intrappolare. E’ logico, legale ed etico andare su internet con molti cappelli diversi, ognuno per uno dei nostri ruoli. E possiamo anche farlo in modo anonimo per rendere un pelo più complessa l’attività di tracciatura di cui siamo vittime: nelle prossime puntate vedremo come.
Chiudo ricordando che internet nasce per aumentare la libertà di parola e di stampa, ma visto che le ultime mosse dei social media non sembrano favorire l’intento originale, vale la pena condividere l’importanza del concetto, espressa egregiamente qui da Rowan Atkison, ossia Mr. Bean.