Fino a poco prima, alla stregua di Bitcoin, utilizzava il “proof of work” (prova che funziona) come meccanismo per verificare la validità ed autenticità delle transazioni, per assicurare che tutti gli attori siano d’accordo su chi ha legittimo possesso della valuta. Da giovedì scorso sono passati all’uso di un altro meccanismo, “proof of stake” (prova di possesso), che porta il consumo elettrico di Ethereum da 85GigaWatt ad 85Megawatt, equivalente a spegnere 85 centrali nucleari ed alimentare il tutto con un campo solare. Se pensiamo che un GW alimenta 750.000 case, è come aver spento la Germania.
Nel proof of work i server sparsi per il mondo gareggiano per risolvere un problema matematico; il vincitore riceve un premio ed il diritto di validare le transazioni dei dieci minuti precedenti. Logico che alla crescita della potenza di calcolo ed alla performance richiesta per battere i concorrenti, il consumo di energia vada alle stelle. Questo sistema è molto sicuro, perché l’eventuale truffatore dovrebbe dotarsi di maggior potenza di calcolo, non solo del vincitore, ma di tutto il network partecipante: missione quasi impossibile.
Nel proof of stake al contrario, il diritto di validare le transazioni viene dato ai server con più Ethereum a disposizione, in pratica i più ricchi. Anche in questo caso l’hacker ha un problema quasi impossibile da risolvere, visto che dovrebbe dimostrare di essere più ricco del sistema; e peraltro a quel punto non avrebbe interesse a rischiare una truffa.
Con questa mossa Ethereum diventa molto più competitivo di Bitcoin, che consumando 15GW produce l’anidride carbonica dell’Austria, ma gli 85MW sono ancora tantissimi rispetto ad altri metodi di erogare potenza di calcolo. Chi mantiene un deposito di Ethereum, in questo istante, può esser tranquillo di guadagnare un 4-6% all’anno, che è meno dell’inflazione corrente ma vantaggioso rispetto ad altre forme di investimento “sicuro”.
Tuttavia, Washington, Bruxelles e Pechino si stanno organizzando per soppiantare queste criptovalute private con dollari, euro e yen digitali, e lo fanno attraverso maggiori controlli e requisiti burocratici quasi impossibili da rispettare. Se poi, come nel caso dell’Europa, si chiama Amazon a proporre la criptovaluta per gestire il commercio elettronico, possiamo star certi che le promesse romantiche di Web3, decentralizzazione del controllo e democrazia di internet resteranno sui PowerPoint dei consulenti.