L’hai chiamato “Lettera a un bambino mai nato” e a quelle pagine hai affidato un dilemma: dare la vita o negarla?
La protagonista della tua storia sceglie di fare “ciò che fanno e hanno fatto gli alberi, per milioni e milioni di anni” e quindi di tenere dentro di sé la propria creatura. Non sembra affatto una strada facile da seguire perché “una donna che aspetta un figlio senza esser sposata è vista come una irresponsabile. Mai come una mamma uguale alle altre.” Ecco a questo punto vorrei capire quale soluzione avrebbe messo d’accordo tutti: tenere il bambino pur essendo sola o rinunciarvi passando per assassina? Pare un quesito insolvibile perché un’opzione esclude necessariamente l’altra e in questo “aut aut” si finisce sempre colpevoli.
Per varie complicazioni di salute la madre non darà mai alla luce suo figlio a causa di un aborto spontaneo. Il che potrebbe cinicamente rivelarsi risolutivo poiché la scomparsa del bambino riporta la storia al suo ordine prestabilito. Invece no, in una sorta di onirico trasmigrare, “durante il delirio” la donna si ritrova in “una sala candida, con sette scanni e una gabbia.” Si celebra un processo dove l’imputata altri non è che la protagonista, accusata “del reato di omicidio premeditato per aver voluto e provocato la morte di suo figlio.” Ebbene a quanto pare perdere il proprio bimbo per circostanze avverse pare comunque un delitto vergognoso.
Se fossi qui Oriana, vorrei che mi spiegassi come voi donne potete salvarvi dalle accuse di noi uomini che questo mistero non lo viviamo. Ma siccome non puoi rispondermi, posso solo immaginare che mi diresti quello che dicesti alla Rai nel ‘76: “Che l’aborto non è un gioco politico. Che a restare incinte siete voi donne, che a partorire siete voi donne, che a morire partorendo o abortendo siete voi. E che la scelta tocca dunque a voi. A voi donne. Tanto se non ci piace, siete lo stesso voi a decidere. D’altronde lo avete fatto per millenni. Avete sfidato per millenni le prediche, l’inferno, le galere. Le sfiderete ancora.”