Bruxelles


Il ceto & il censo

A Bruxelles il lockdown non è dichiarato, ma persiste nelle forme automatiche che sono venute a crearsi e nelle prudenze che sono diventate abitudini, anche se una parte consistente della popolazione non si sente obbligata, neppure moralmente, ad adeguarvisi. Sta di fatto che  la déchirure, lo sbrego che si è creato nel tessuto relazionale e sociale si ricompone a fatica, con telefonate ad hoc, e magari passeggiate nelle ampie foreste cittadine in qualche giorno di prolungamento dell’estate di San Martino.

Ed è proprio in una di queste occasioni, discutendo della caccia a qualcosa di rinfrescante da leggere, che una fonte del Consiglio, uno di quei personaggi che sono insieme degli zelig e dei forrestgumps, abili a mimetizzarsi e ad essere sempre nei posti dove succede la storia, origliandola e consigliandola, mi ha detto: "Hai visto lo studio di Brookings sulle contee dove ha vinto Biden?". Sgomento e ignoranza sono sentimenti che, se contemporanei, sono gravi per un lobbista. Ma non è che si possa fingere più di tanto: "Sono in arretrato con le loro newsletter" ho risposto arrossendo.

La Brookings Institution è un'organizzazione di politica pubblica senza scopo di lucro con sede a Washington, DC. La missione è condurre una ricerca approfondita che porti a nuove idee per risolvere i problemi che la società deve affrontare a livello locale, nazionale e globale, questo dice il loro sito, copiato e incollato. E’ uno dei principali punti di riferimento per capire e interpretare non solo gli Usa, ma anche i macro fenomeni che riguardano tutti noi e che prima o poi arriveranno anche sulle scrivanie di provincia; è una chiesa laica che fra i suoi diaconi ha avuto, ha una manciata di italiani: il più famoso, in libera uscita per altri incarichi, Paolo Gentiloni, Commissario europeo all’economia fino al 2024.

Insomma, Brookings ha riconteggiato i voti delle presidenziali americane, consegnandoci un’analisi alternativa, come aveva già fatto nel 2016. Biden ha vinto. Non tanto per numero di voti elettorali, e neppure solo per voti popolari; bensì perché le 477 contee in cui ha vinto raccolgono il 70% del valore aggregato del prodotto interno lordo degli USA. Trump ha vinto in 2.497 contee, ma queste rappresentano solo il 29% del prodotto interno lordo. Nel 2016 fu simile, ma Trump vinse alcuni “stati pesanti” in termini di voti elettorali. Sappiamo tutti che raccolse grosso modo tre milioni di voti in meno di Hillary Diane Rodham Clinton, che perse le elezioni, ma vinse il voto popolare e quello del prodotto interno lordo: ne raccolse il 64% contro il 36% di Trump. L’articolo è collegato con un link; se non siete sicuri del vostro inglese frullatelo in Google Translator, che così viene aggiunto all’algoritmo dei vostri interessi e potreste un giorno passare per sovversivi, ma almeno lo capite più facilmente. 

Mi dice Forrest Gump: “Capisci che in un sistema così imballato come dimostra di essere quello americano, una sua revisione tenendo conto anche di questi parametri potrebbe aiutare?”. Lunga pausa meditabonda; il cane, un raro setter a pelo corto fulvo con riflessi violacei, osserva arcigno, fingendo di non capire; e poi: “In effetti potrebbe essere un’ispirazione anche per noi in Europa: mi sono divertito a fare un po’ di conti per i grandi Paesi: il panorama cambierebbe; by far – di molto, come dice Trump nel suo famoso tweet...”

Non desidero innestare questioni metodologiche sull’analisi delle variabili e varianze statistiche fra un Paese e l’altro, la non omogeneità dei sistemi e quant’altro. Perciò mi fermo qui. Questo, però, è uno di quei tabù che in consessi europei, e non solo, è un “No-no-no topic”: non se ne parla, non si deve nemmeno pensare, se si desidera mantenere un profilo politically correct, coerente con i propri studi, il proprio passato liberal-socialista; se si è transitati poi, almeno idealmente, da Bad Godesberg e successivamente ci si è applicati allo studio dei padri e madri d’Europa e dedicati ai loro scritti e all’analisi dei loro discorsi...

Certo, ed è palpabile: la tentazione è forte. Gli riassumo il quadro dipinto alcune settimane fa da Zafferano sul voto attraverso un’app controllata magari da uno dei giganti dell’informatizzazione sociale di massa (un assaggio nelle parole del Signor CEO il 7 novembre scorso) e vedo l’occhio scintillare. Mi pongo qualche dubbio, mi dico che comunque è una battuta. Però le altre volte, con le boutades siamo poi arrivati a una serie di irrigidimenti sul controllo del global warming e della regolazione energetica; e alla mia grande nemica, la carne finta... Vigilare!

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Zafferano

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In questo numero hanno scritto:

Angela Maria Borello (Torino): direttrice didattica scuola per l’infanzia, curiosa di bambini
Tommy Cappellini (Lugano): lavora nella “cultura”, soffre di acufene, ama la foresta russa
Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
Roberto Dolci (Boston): imprenditore digitale, follower di Seneca ed Ulisse, tifoso del Toro
Giovanni Maddalena (Termoli): filosofo del pragmatismo, della comunicazioni, delle libertà. E, ovviamente, granata
Barbara Nahmad (Milano): pittrice e docente all'Accademia di Brera. Una vera milanese di origini sefardite
Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro
Roberto Zangrandi (Bruxelles): lobbista