- Ci sono già Corsera, Rep e via a scendere. Loro fanno interviste verticali, vertiginose, veloci, con domande in grassetto massimo due righe e risposte ficcanti. Stile televisivo o se vuoi pubblicitario. E se vai lunga ti spezzano il ragionamento in due, in tre o in sette parti, usando intercalari, battutine, gridolini di entusiasmo (ben occultato), eccetera. Tempo medio di lettura 5 minuti. L’occhio deve correre verso la fine del pezzo, il cervello ancor prima dell’occhio. Sono spesso interviste a tesi.
- La facciamo quindi a virgolettati?
- No, è come avere un parente in casa, magari in quarantena con la febbre, che borbotta dalla mattina alla sera e tu a mezzogiorno hai già mal di testa. E poi l’Editore mi ha detto di fare innovazione. Qui a Zafferano facciamo ricerca giornalistica sperimentale. È un lusso, lo so. Immagina che io ti stia intervistando dal futuro. Secondo me è dall’informale che oggi può nascere qualcosa di interessante. Rompere le forme giornalistiche classiche, e via così.
- Ottimo. Come procediamo?
- Ti presento ai lettori.
- Vai.
- Daniela Ovadia, giornalista scientifica. Direttore di un’agenzia che fornisce contenuti a media italiani e stranieri. Direttore del progetto Center for Ethics in Science and Journalism. Professore di “Etica della ricerca” all’Università di Pavia e di “Etica e comunicazione per la progettazione europea” all’Università La Sapienza di Roma. Una persona da prendere con le pinze, come tutti coloro che su questa Terra accettano di farsi intervistare. Sai, a Zafferano siamo apòti. È un punto d'onore nonché il modus operandi della testata. Gli abbonati, oltre diecimila, gradiscono. Ti tocca.
- Avanti!
- Cosa ne pensi di come i giornali italiani hanno coperto l’epidemia e poi la pandemia di COVID-19?
- Fin da subito ho avuto la sensazione che si volesse gestire l’intera questione come un problema di policy. Ovvero di gestione politica della notizia. In una pandemia come questa l’informazione gioca un ruolo fondamentale, sia sui cittadini sia sui policy makers. Così come lo gioca quando la narrazione scientifica inaccurata o di parte, nelle grandi crisi, diventa ancillare. Ciò è accaduto perché la scienza, in generale e ancor più in un momento come questo, è una scienza dell’incertezza e i quotidiani italiani fanno storicamente una gran fatica a gestire la componente di incertezza di una notizia.
- Il fatto quotidiano ti vende solide e monolitiche certezze, fin dal nome.
- E allora che dire della Verità?
- Discorso diverso: preferisco pagare per avere una verità parziale piuttosto che una parte dei fatti.
- Be’, lasciamo perdere. Ti posso però confermare che in altri Paesi dove la comunicazione della scienza è più solida il problema di dare notizie in divenire si sente meno nelle redazioni. Proprio mentre l'Italia era al centro dell’attenzione giornalistica mondiale per la pandemia da COVID-19, nelle nostre redazioni il tema è stato affidato soprattutto alla cronaca, mentre i tanti giornalisti scientifici italiani, in gran parte free lance, sono stati reclutati da… testate straniere.
- Immagino percependo compensi più elevati.
- As usual. Scrivere sul COVID-19 vuol dire avere una formazione adeguata, la mia ad esempio è medica, una vita passata nella comunicazione e nella divulgazione scientifica, e significa studiare parecchio il caso specifico, mettendoci molto tempo. So che ad alcuni colleghi specialisti sono stati proposti 50 euro a pezzo. È ovvio che, potendo scegliere, i più formati preferiscono lavorare con quotidiani stranieri che ti danno più tempo e un compenso adeguato. Ma non è un problema del solo giornalismo scientifico.
- Ti confesso che all’inizio, pur nel dramma che vedevo arrivare, ero entusiasta. Mi sono detto: dopo anni di crisi, ecco un grande momento per la stampa, che si riscatterà. Ci ho messo 48 ore a tornare a speranze, come dire, più realistiche.
- La prima débâcle è stata politica e scientifica allo stesso tempo. Parlo della folle anticipazione del decreto di lockdown per la Lombardia. Ho passato i giorni successivi a discutere con colleghe che sostenevano "che le notizie si danno sempre" e che "la deontologia del giornalismo", tra virgolette, è quella di pubblicare tutto. Ma questa è una "deontologia" ispirata al mito dello scoop e forse acuita dall’on line, e che non ho mai condiviso. La vera deontologia è in primis verificare le fonti e capisco "che la carta era intestata" e che il numero di fax da cui è uscita la bozza di decreto "era noto", ma perché nessuno si è chiesto come mai una tale notizia veniva fatta circolare in anticipo e senza la firma del Presidente del Consiglio? Qual è il ruolo del giornalista: passare, senza contestualizzarle, le veline del potere? Non capisco.
- Che bisognava fare secondo te?
- Chiedersi senza accenti retorici: che cosa faccio al mio Paese e alla popolazione se pubblico questa notizia? Questa è una prassi abituale per i giornalisti scientifici: davanti a una scoperta nuova, cerchiamo di inquadrarla in un contesto, ci diamo tempo. Tutti i giorni io ricevo sotto embargo una quantità di studi medici e so che devo guardarli in modo critico. E chiedermi: se lo faccio uscire adesso cosa succede al medico o al paziente che si confronta con la notizia? Ci sarebbe forse un rischio di maggiori decessi, per chissà quale motivo?
- Domande da uomini, mica da giornalisti.
- Domande difficili. Quando insegno etica della ricerca e della comunicazione scientifica ho l’abitudine di disegnare per gli studenti un cerchio che rappresenta l’etica del giornalismo. Poi un quadrato, che rappresenta l’etica della scienza. Infine disegno un pentagono, che ahimè rappresenta il giornalismo scientifico, un campo dove noi giornalisti non siamo né i portavoce della scienza né i suoi nemici e nel quale dobbiamo stare molto attenti prima di far uscire notizie pericolose perché non del tutto consolidate. Potresti mettere pericolose in corsivo? Non sarebbe male che anche la cronaca ci prendesse talvolta a modello.
- Si venderebbero meno copie delle già poche che si vendono.
- Permettimi: magari si proteggerebbero più persone. Quando è stata diffusa la bozza del decreto la pandemia non era ancora stata dichiarata ma si era comunque nel pieno di un’epidemia che andava gestita secondo i protocolli di gestione di una crisi epidemica, che esistono, anche se, nel caso dell’Italia, non sono stati aggiornati con la frequenza prevista. E che valgono per tutti, pure per i giornalisti. La fuoriuscita della notizia ha spinto a una fuga di massa verso il sud Italia e solo per fortuna il contagio lì non è ancora esploso. Ma prendiamola diversamente: quanti contagiati si sarebbero potuti evitare non propagando la bozza del decreto?
- ...
- Vedi quanta responsabilità c’è nel dare o non dare una notizia? Te ne racconto un’altra. La bufala sull’uso dell’ibuprofene per la cura del COVID-19.
- Sentiamo.
- Dopo la notizia del ricovero di tre ragazzi che lo avevano assunto per abbassare la febbre e che sono improvvisamente peggiorati, il ministro della Salute francese aveva twittato un warning: no a ibuprofene e cortisone contro i sintomi da COVID-19. Letto il tweet, mi sono detta: perché il ministro ha associato nella medesima allerta un antinfiammatorio non steroideo e il cortisone, che è il prototipo degli steroidei? Qui c’è qualcosa che non va. Infatti a stretto giro i medici di base mi hanno subissato di domande, mentre i farmacologi esperti già esprimevano dubbi su quella indicazione.
- E…?
- Per sbufalare la cosa ci sono voluti dieci giorni alla fine dei quali è arrivato uno statement dell’OMS e dell’Agenzia europea per i medicinali, in cui si smentiva la relazione. Molte persone con malattie infiammatorie croniche, spaventate, stavano interrompendo la cura, rischiando di intasare gli ospedali, con i pericoli che sappiamo. In tutto questo i giornalisti – di cronaca, va precisato – hanno semplicemente ripreso e propagato il tweet del ministro. Ma se un politico twitta, il giornalista verifica. E qui torniamo a quanto dicevamo sopra. Per non parlare dei tempi delle istituzioni, anche sovranazionali, incompatibili con i tempi dei media.
- Tutto questo, credo, nel giornalismo economico accade leggermente meno. Le redazioni sono obbligate a essere un filo più "competenti".
- È che quando si pubblica qualche stupidata scientifica protestano in pochi, con quelle economiche va diverso. Il conflitto di interessi resta in ogni caso sempre attivo. Col COVID-19 si è iniziato con lo sparare titoli allarmistici a 360°, della serie “moriremo tutti”. Poi, dopo qualche crollo in Borsa, mi hanno detto alcuni colleghi di aver ricevuto inviti a una maggior prudenza nella titolazione. Adesso siamo nella fase del realismo, dove c’è meno possibilità di manovrare l’informazione. È la realtà che ci sta dando un bel pugno in faccia.
- C'è che il modello di giornalismo italiano dovrebbe fare quello che non ha nessuna voglia di fare: evolversi. Ancora oggi, quando esce uno studio scientifico, si confeziona al massimo una bella paginetta con intervista al ricercatore (spesso solo dopo che il New York Times ha dato la notizia di cui tu eri già in possesso e che avevi già proposto al direttore). Ecco, è un modo di procedere che altrove è in via di estinzione.
- Te lo confermo. Dove esiste internet e dove le riviste scientifiche hanno potenti strumenti di divulgazione a disposizione, questo modo di confezionare un quotidiano è vecchio. Occorre un percorso diverso, che tra l’altro ripristinerebbe il vero senso del giornalismo scientifico, che diventerebbe di approfondimento o di investigazione.
- Addirittura di investigazione?
- La scienza è un sistema che, come tutti i sistemi, ha i suoi pro e i suoi contro, i suoi giri di potere, eccetera. Il giornalista scientifico, anche quello che lavora per i quotidiani, potrebbe essere benissimo un watch dog del settore. Per farlo ci vogliono tempo, risorse economiche, interesse da parte del pubblico. Quest’ultimo, come curatrice o ospite di festival dedicati alla scienza, ti confermo che c’è.
- Torniamo al COVID-19. Mai come nelle ultime settimane si è avvertita una cacofonia di notizie invereconda. I sociologi della comunicazione danno la colpa ad un decaduto principio di autorità.
- Aggiungo la deificazione dell’esperto, che in Italia si trasforma in modo molto rapido in esperto di scienza a tutto tondo. La politicizzazione del tema scientifico fa il resto. Se non vuoi guardare al COVID-19, guarda ai recenti dibattiti sull’origine antropogenica del riscaldamento climatico o sui vaccini. Abbiamo bisogno di figure intermedie tra l’esperto che diventa subito un personaggio mediatico e il mondo dei politici, che ragionano ancora in modo vetusto, politicizzando i temi scientifici e pensando di manovrare il dibattito sui giornali, quando invece, mi diceva un lobbista alle prese con una legge relativa alla ricerca scientifica sugli animali, farebbero meglio a rivolgersi agli influencer.
- Ho capito. Comunque io resto apòta, come si dice qui a Zafferano.
- È una scelta molto saggia.