Pur scomponendosi tra le mie mani (data la vecchiezza del tascabile economico Feltrinelli) trovare gli scritti degli artisti è per me sempre fonte di gran curiosità. Scopro aprendolo che una giovane “me” aveva sottolineato tante frasi fondamentali della loro poetica, tra cui, nell’epistolario di Vincent Van Gogh al fratello Theo, datate 1879, quelle sul mercato dell’arte.
Scrive Van Gogh al fratello: “Devi lasciarmi mantenere il mio pessimismo sul mercato delle cose d’arte di oggi, perché non sono scoraggiato su tutto. Io ragiono così. Supponiamo che io abbia ragione nel considerare che questo strano contrattare sui prezzi vada avvicinandosi sempre di più al mercato del bulbi. Ti ripeto, supponiamo che , come accadde al mercato dei bulbi alla fine del secolo scorso, il mercato dell’arte, assieme ad altri campi di speculazione, debba scomparire alla fine di questo secolo, proprio come è sorto, vale a dire quasi di colpo. Ora, può scomparire il mercato dei bulbi, ma la floricultura resta. Per quanto mi riguarda, sono ben felice, nella buona e nella cattiva sorte, di restare un piccolo giardiniere che ama le sue piante.”
A Van Gogh interessava unicamente di proseguire nella sua pittura, come “un piccolo giardiniere che ama le sue piante” a dispetto di tutto uno strano mercato dei prezzi che, almeno in linea teorica, avrebbe potuto anche scomparire. Un interessante punto di vista, che trasportato nell’oggi, potrebbe volerci dire che la trasformazione del sistema dell’arte a cui abbiamo assistito negli ultimi dieci anni - di tipo manageriale (biennali, mostre, musei-brand, fondazioni) impantanata in un certo appeal del presente e lontana dal promuovere la sperimentazione - come dice Marco Scotini in una bella intervista su Artribune, con lo tsunami del Coronavirus, potrebbe anche scomparire.