Clair, nello stesso libro, scriveva: “Poche epoche hanno conosciuto quanto la nostra un tale divorzio tra la povertà delle opere prodotte e l’inflazione dei commenti che anche la più insignificante di esse riesce a suscitare… più l’opera diventa inconsistente tanto più dotta sarà l’esegesi”. Questo è ancora più evidente oggi che il mondo dell’arte, per evitare appunto feste "contagiose", si è spostato sulle piattaforme digitali dove le immagini scorrono spesso indistinte.
Per quel che riguarda la pittura sembra ormai di trovarsi di fronte a degli specialisti della pennellata, da quella espressionista a quella astratta. Il grasso materico, l’acquerellato, il decorativo a parete dai colori squillanti, il figurativo iperrealista, la monocromia rossa o lo scarabocchio: ciascuno esalta il proprio modo e tenta di stupire, accaparrandosi una quota del grande “corpo della pittura”. Come se i pittori fossero parte di un’industria in cui uno cuce, l’altro fa le asole e il terzo i bottoni, e in quel modo di fare sia costretto per tutta la vita.
Già all’inizio del '900 Marcel Duchamp metteva in guardia dagli “intossicati della trementina”, per altro non una boutade contro la pittura in generale ma contro quei gregari del pennello che “imbrattavano senza spirito chilometri di tela” e così facendo cercava di opporsi all’arte accademica. E ora che i suoi seguaci occupano la ribalta, creando prodotti labili e facilmente rinnovabili, Duchamp li metterebbe forse in guardia dall'intossicarsi "di teoria, ozio e digitale"?
Certo è che, in anni recenti, la circolazione accelerata dei prodotti artistici si è sostituita alla considerazione dei valori in essi racchiusi, diventando essa stessa una specie di valore: forse l'unico.