... bianchi, vecchi, impauriti e arrabbiati – come purtroppo anche nella conferenza termolese si è teso a fare ignorando i molti temi ragionevoli di tasse, statalismo, discorso culturale per cui molti non vogliono votare democratico – è forse il momento di provare a fare un bilancio equanime della presidenza Trump. Cominciamo proprio dalla politica estera e la prossima settimana passeremo a quella interna, molto più problematica per l’attuale presidente.
In politica estera Trump ha riportato gli US alla politica tradizionale dei conservatori: no a nuovi interventi militari all’estero (le guerre novecentesche sono state cominciate quasi tutte da presidenti democratici), politica mediorientale in favore di Israele e controllo della situazione con fine dell’Isis tramite accordi economici sulle armi (in particolare con l’Arabia Saudita), guerra economica alla Cina, ricontrattazione dei trattati internazionali, fine della globalizzazione estrema, memento agli europei sul fatto che la difesa della NATO si deve pagare (almeno un po’, almeno più della metà di quanto stabilito dai trattati), recessione dal trattato di Parigi sulla CO2.
Giuste o sbagliate che siano queste mosse, Biden difficilmente potrebbe fare cose sostanzialmente diverse, tranne che sui trattati sul clima, peraltro sempre altamente intenzionali. Per quanto riguarda il resto, tutti hanno capito che gli US non potevano più sopportare la perdita della produzione a favore di una dislocazione in Cina o in India. Troppa gente rimane senza lavoro. Allo stesso modo, anche i Dem hanno capito che la Cina è un modello contrario a quello occidentale e che è pericoloso lasciare in mano cinese il debito americano e l’accesso alle informazioni.
Certo, come dice D’Alimonte, Biden potrebbe fare la medesima guerra con il sorriso, ma non cambierà direzione. Alla fine, al netto delle grida allo scandalo per i modi molto inconsueti e antipatici di Trump, per quanto riguarda la politica estera, è stata una normale presidenza repubblicana, che ha fatto imboccare una direzione decisa – e forse obbligata, chiunque avesse vinto – per un Paese che usciva da una crisi economica epocale e da un impegno militare globale ipertrofico.