... essere un vigile monito e richiamo, con la presenza costante di un teschio o di una candela accesa, simbolo del tempo che scorre, a diffidare dei beni materiali e rammentare così agli uomini la vanità della vita. Tutte le nature morte avevano comunque la medesima caratteristica, cioè quella di provocare nello spettatore un piccolo stato di tensione attraverso l’inserimento di qualche elemento distonico: come se questa presa diretta della realtà, silenziosa e veritiera, non potesse esistere poeticamente senza il suo più netto contrasto, e cioè la morte. Come a dire che in ogni singolo istante della vita noi siamo fatti in modo da dover morire, e che ogni istante sarebbe diverso, se questa non fosse la nostra sorte.
Georg Simmel, ne “La metafisica della morte”, un saggio del 1911, dice che essa non limita, cioè forma, la nostra vita soltanto nell’ora della morte, ma è un momento formale e costitutivo della vita stessa, che tinge tutti i suoi contenuti. La vita che noi impieghiamo per avvicinarci alla morte, la impieghiamo per fuggire da essa. Al tempo stesso la vita nella sua immediatezza, svolge il suo processo indivisa dai suoi contenuti; questa unità di fatto può essere soltanto vissuta e come tale non può essere dominata intellettualmente. Solo l’apprensione della morte può sciogliere quel legame, quella solidarietà della vita con la vita.
I grandi mercanti olandesi arricchitisi nei commerci e disposti a favorire un’arte prettamente borghese, commissionavano le opere agli artisti per dimostrare la loro crescita sociale, politica ed economica. Erano consci del pericolo del vivere e quell’arte dalla poetica così “domestica” glielo ricordava ogni giorno. La loro vita del resto era assai più breve della nostra ma si fondava su una pienezza e un coraggio che forse noi abbiamo perso.