Ricordate il film “Io e Caterina”? Enrico Melotti (alias Alberto Sordi), un uomo d'affari di mezza età, è dominato da una feroce quanto ingenua forma di maschilismo: considera le donne solo per ciò che possono dargli, sia dal punto di vista affettivo e sessuale che dal punto di vista dei servizi lavorativi e domestici. Di conseguenza, ha difficoltà nei rapporti con la moglie Marisa, con la segretaria-amante Claudia e con la domestica Teresa. Decide di mandare tutte a quel paese e comprarsi il robot Caterina, fedele servitrice senza resta. Peccato che dopo un po’ questa diventa cosciente e prende a sabotare incontri galanti, infrangere deliberatamente piatti e porcellane, esprimere desideri, marcare il suo territorio.
Per avvicinarsi a una forma di cognizione comparabile a quella umana, l’IA dovrebbe integrare elementi di embodiment (cioè avere un “corpo” e interagire fisicamente con l’ambiente attraverso una “pelle”), provare un’emozione per quanto artificiale, e possedere una rappresentazione simbolica del sé. Progetti come i robot sociali o i sistemi di IA neurorobotica stanno esplorando queste frontiere, ma siamo ancora lontani da una “percezione selettiva” realmente consapevole. Una strada per accelerare molto questo processo è quella di far sperimentare mondi virtuali o metaversi. Google DeepMind ha recentemente pubblicato su Nature uno studio pionieristico con il sistema DreamerV3, un agente di apprendimento rinforzato, basato su un modello del mondo, che ha dimostrato la capacità di raccogliere diamanti nel gioco online Minecraft senza usare dati umani o curricula specifici. Il lavoro di DeepMind con Dreamer apre nuove prospettive verso agenti intelligenti in grado di apprendere e adattarsi in ambienti complessi senza supervisione umana. Il metaverso qui allena la coscienza “in purezza”, direbbe il nostro Riccardo Ruggeri, senza bisogno di robot ultra-costosi che perlustrano, rompendosi spesso, il mondo reale.
Il filosofo Maurizio Ferraris, ne “La pelle” (il Mulino, 12025), sostiene che la volontà, il bisogno, la paura e la speranza che muovono il nostro agire derivano dall’essere in un corpo “che le macchine non hanno, in nessun senso serio del termine”. Ferraris sostiene che la nostra volontà deriva dalla consapevolezza che quel corpo ha una fine, muore. Altrettanto siamo consapevoli di dover dormire. Ci serve anche per riorganizzare i nostri saperi accomodandoli nel profondo del cervello.
Il punto è che qualsiasi robot dotato di sensori di fatto ha una interfaccia, una “pelle”, che sia nel mondo reale o nel metaverso, e se coscienza e libero arbitrio vengono al termine di un percorso di integrazione delle tracce esperienziali maturate, nulla vieta a una “macchina” di maturarle se non, per ora, i costi energetico-computazionali a cui abbiamo fatto cenno nello scorso editoriale.
Vi lascio con un consiglio di lettura: “Il robot che voleva dormire” di Gianni Rodari (Mursia, 1992).
Alla prossima!