L’edizione 2025 del laboratorio di alta formazione teatrale diretto da Paola Pedrazzini chiama gli allievi alla messa in scena delle Baccanti di Euripide, regia di Leonardo Lidi, adattamento drammaturgico di Francesco Halupca. Il foro diviene scena dell’incontro-non incontro tra Dioniso, dio in cerca di riconoscimento, e Penteo, re di Tebe, empio, deciso a negare la divinità di Dioniso. Dio e uomo: due mondi opposti, due prospettive inconciliabili. Ne risultano un necessario soccombere dell’umano e un trionfo divino. Il trionfo di Dioniso.
Vestito con maglietta e pantaloncino rossi, il Dioniso di Lidi (Teresa Castello) arriva nella terra della madre camminando con passo ginnico. È un Dioniso che appare subito buffo, un ibrido tra un Eros monello e un simpatico personaggio da cartone animato. La decisione di affidare il ruolo del dio a un’interprete donna non è, certo, una novità nella storia delle numerose messe in scena delle Baccanti. L’ambiguità sessuale di Dioniso, divinità che scavalca di limiti e i confini identitari, nonché quella sua femminilità dalla quale Penteo stesso resta turbato, sono ben traducibili attraverso la scelta di una voce e di un corpo di attrice. Ma il Dioniso disegnato da Lidi sembra non lasciare spazio alla trasgressione, alla commistione dei generi. Molto poco si evince del suo potere seduttivo, elemento che, lungi dall’essere accessorio, è, anzi, la miccia che dà origine al drammatico scardinamento del mondo interiore di Penteo. Un Penteo che, prigioniero dei propri stessi limiti mentali, fa della propria morte per disintegrazione la concretizzazione di un’irrisolta crisi identitaria. Identità anche sessuale e di genere. Ancora una nota circa la dimensione erotica del rapporto tra Dioniso e Penteo: piuttosto curiosa è la presenza, accanto a Penteo del servo (Pietro Savoi), personaggio, nello spettacolo di Lidi, piuttosto ambiguo. Nel rapporto con l’empio re di Tebe, diviene, ora, quasi un doppio del dio. È con il servo che Penteo (Fabrizio Costella, uno degli attori più convincenti) si intrattiene in una scena dalle tinte omosessuali, è tra le braccia del servo che, alla fine dello spettacolo, giace il corpo di Penteo. Se la strategia di uno sdoppiamento può essere, talvolta, strumento di isolamento e di enfatizzazione di specifici tratti di un personaggio, nella messa in scena di Lidi, invece, essa genera quasi confusione. E Dioniso, quello vero, quello con maglietta e pantaloncino, viene relegato a figura ancora più marginale. Ancora meno significativa
Non si può non riservare uno spazio anche all’analisi di quel personaggio che alla tragedia dà il nome: il coro delle Baccanti. Vestite da cheerleaders (costumi di Aurora Damanti), le Baccanti di Lidi sembrano uscite da una High School americana. Con top, pancia scoperta, trecce e minigonna, si esibiscono in coreografie (Riccardo Micheletti) su canzoni pop. Quelle che dovrebbero, nella furia che le caratterizza nel testo euripideo, essere l’incarnazione dell’estasi dionisiaca, della distruzione dei limiti e dell’implosione del reale, sono, invece, ragazze bloccate nella ripetizione di passi codificati, definiti, di movimenti stereotipati, spesso stilizzati nella loro presunta carica seduttiva. Sono ordinate, curate, schematiche.
Se già la componente coreutica solleva qualche dubbio, la più grande perplessità è legata al mutismo delle baccanti. Fin loro arrivo in scena dallo spazio erboso dietro il foro (ingresso che, grazie a un intelligente sfruttamento dello spazio naturale, regala buone aspettative) ci si attende di sentirle recitare all’unisono, di percepire la loro identità collettiva attraverso la condivisione della parola. Ci si aspetta fino alla fine di vederle muoversi, agire, parlare come quello che una tragedia greca richiede: un coro. E invece il silenzio delle baccanti, interrotto da qualche intervento affidato a singole interpreti, contribuisce all’appiattimento dell’estasi e all’allentamento dello spirito collettivo. Danzano con sincronicità, vicine, ma continuano a sembrare indipendenti l’una dall’altra.
Fin dall’inizio della messa in scena, per concludere, e per tutto lo svolgersi del dramma, il clima è fin troppo disteso, eccessivamente leggero. Fanno ridere Cadmo (Alessandro Ambrosi) e Tiresia (Riccardo Livermore), due anziani che tentano la danza dionisiaca, ma la loro comicità è figlia del modo degradante e dissacrante con il quale Euripide stesso li disegna. Meno ammissibile è, invece, che faccia ridere Dioniso, ancor meno Penteo. Eppure il pubblico ride, ride addirittura nei momenti meno opportuni. Si pensi, ad esempio, alla scena nella quale Penteo si traveste da baccante. Penteo, la cui condanna risiede nell’incapacità di guardare oltre i confini che garantiscono la definizione, l’individuazione, la conoscenza razionale e materiale della realtà, Penteo, chiuso nel proprio essere autoreferenziale e monolitico, cede, sotto invasamento, all’idea di farsi altro da sé. Viene distrutto ancora prima di essere disintegrato dalle baccanti. Nella metamorfosi fisica di Penteo è racchiuso il cuore del dramma: l’inevitabile capitolazione dell’uomo dinanzi al dio, il trionfo di una divinità crudele e manipolatrice, la crisi dell’io, della realtà, del modo con cui l’uomo la pensa, la vive, la sperimenta e la conosce. Ma Penteo indossa una minigonna, ha la pancia scoperta, un top stretto, e una parrucca con lunghi capelli bianchi. E il pubblico ride.
Nello spazio del parco di Veleia, che, certo, avrebbe potuto fungere da spazio perfetto per la rievocazione del rito sacrificale di Penteo, le Baccanti di Lidi sono uno spettacolo tra pop e rap, sono una tragedia solo abbozzata. Una tragedia che non esplode mai veramente. Peccato.