Dal momento che vengono a studiare a Roma molti seminaristi da tutto il mondo, legati all’una o all’altra esperienza di cristianesimo, queste università non devono creare un network internazionale perché ne sono già il frutto: l’effettiva diversity così ricercata dalle università laiche è un dato di partenza. Inoltre, considerando molte materie umanistiche o economico-sociali come basi necessarie per comprendere o applicare la fede, queste università mantengono un forte rispetto per l’educazione del pensiero che rischia di essere utile e, persino, tornare di moda nell’epoca della tecnologia diffusa e del sapere frammentato.
Con la parificazione dei titoli, l’apertura di nuovi corsi “civili”, la possibilità di restare fuori dal sistema burocratico ormai ossessivo dell’università italiana e dalla trasformazione mondiale del sistema universitario in prodotto di mercato – ben illustrato da un recente dibattito condotto da Lorenzo Ornaghi su Lisander – queste università potrebbero essere effettivamente competitive, se fossero dotate di investimenti adeguati per centri di ricerca e docenti. Anche in questo caso, occorrono persone con visione, che non so quanto e come siano presenti nelle varie fondazioni, ma la possibilità di un spazio nuovo esiste.
A prescindere dal destino di queste università, però, vale la pena trattenere un pensiero più generale. Le università occidentali nascono da un’idea essenziale del cristianesimo che aveva messo in luce Benedetto XVI in un celebre discorso: il cristianesimo si rivolge alla ragione perché convinto di proporre verità universali, che possono essere sottoposte a studio e verifica, e che non hanno paura di confrontarsi e contaminarsi con l’intero sapere umano. Ciò vale non solo per il cattolicesimo. Per esempio, le grandi università americane, a cominciare dalla Harvard University, sono nate da scuole di teologia delle varie chiese riformate. Quando il cristianesimo perde questa pretesa veritativa diventa una setta come le molte altre che ci sono in giro per il mondo.
Una setta, al contrario di quanto detto, considera che il suo discorso, sempre interno e autoreferenziale, sia comunicabile solo a chi “fa la medesima esperienza” e non possa dunque essere oggetto di valutazione e di studio, men che meno luce per altri saperi o confronto con le vicende del mondo. In un discorso settario, i cui registri interni ed esterni sono molto distanti, ogni domanda o dubbio o critica è considerato sospetto, ogni discussione un pericolo, ogni confronto pubblico un tradimento. Le sette non creano università né centri di ricerca o di studio aperti a tutti.
Ecco, dunque, il pensiero che mi veniva alla fine di questo giro. Ben vengano le università dei mondi legati alla religione: sono la nostra garanzia che queste preziose esperienze umane non si trasformino in sette e continuino invece a parlare, con logica, a tutti.